“Ti rimando in Marocco in una bara”: 38enne condannato per minacce e aggressioni all’ex moglie

16 Marzo 2018

Un sorriso, forse il primo da tempo. Forse liberatorio, per iniziare a scacciare la paura indotta da quella che il pm Luca Ceccanti, nella sua requisitoria, ha definito una “vicenda brutta, di ignoranza e di becera volontà di prevaricazione, venata anche di razzismo”. Ha accolto così la sentenza, al termine del processo celebrato oggi, venerdì 16 marzo, l’ex moglie di un 38enne valdostano che il giudice monocratico Marco Tornatore ha condannato a 2 anni e 2 mesi di carcere, ritenendolo colpevole di atti persecutori e lesioni personali aggravate.

Per l’accusa, l’uomo – che dovrà inoltre risarcire la donna con cui viveva in Valle, di origini nordafricane, con diecimila euro e pagare 3.420 euro di spese legali – “ha esercitato”, anche dopo la fine del matrimonio, approfittando delle occasioni in cui aveva diritto a vedere il figlio, “una violentissima prevaricazione”, grave “per la modalità e l’arroganza” con cui è stata attuata. Tra le ingiurie rivolte all’ex moglie emerse nelle diverse udienze, e ricordate dal pm per essere riferite non solo dalla parte offesa, ma anche da altri testimoni, pure minacce di morte, come: “il padrone sono io, fai quello che dico io, altrimenti te ne torni in Marocco, anche dentro una bara”.

In due episodi (nel giugno e nel periodo natalizio del 2016), l’imputato – ha evocato il Pubblico ministero – è andato oltre le parole, arrivando ad aggredire l’ex compagna. In particolare, in un caso, dopo gli insulti “non si contiene” e “la sbatte contro il muro, lasciandole segni sul corpo”. Delle percosse, nel processo, ha parlato anche un medico intervenuto per deporre, riferendo di aver ricevuto in studio la donna con un braccio al collo e di essersi sentita rispondere, dopo averle domandato lumi sull'accaduto, “che era stato il marito a picchiarla”.

Un quadro di accuse che il sostituto procuratore Ceccanti ha ritenuto “assolutamente esaustivo, persino eccessivamente ricco”, visti gli “elementi di riscontro forniti da persone che erano a conoscenza dei fatti e da fonti documentali”. Una vicenda per cui la vittima “sfiorisce”, vivendo uno “smarrimento significativo”, causato da colui che “amici e parenti sono venuti a dire” essere “una brava persona”, ma “in un processo penale non si parla di questo, si accerta la verità”. Parole nette, alle quali il pm ha fatto seguire una richiesta di condanna, per entrambi i reati contestati, a due anni e quattro mesi di reclusione.

La donna ha scelto di costituirsi parte civile e l’avvocato Liala Todde, del foro di Torino, ha messo l’accento sulla “grande solitudine” in cui la sua assistita si è trovata a vivere la situazione, aggiungendo che “se avesse avuto qualcuno della sua famiglia qui, credo che l’ex marito non avrebbe" tenuto atteggiamenti del genere. Il legale ha poi espresso l’auspicio di una sentenza “che dia un segno, nel far dire ‘basta’”, perché “anche con la chiusura del matrimonio resta angoscia”, visto che ora “c’è una misura cautelare (il divieto di avvicinamento, ndr.), ma dopo cosa succederà?”.

La difesa del 38enne, rappresentata dall’avvocato Kira Vittone, ha puntato sullo scardinare la linearità delle dichiarazioni della donna in aula, ricordando come le domande rivoltele nel controesame “l’abbiano messa in difficoltà”. “Non perché questo difensore abbia fatto chissà quali domande, – ha affermato – ma ad un certo punto la signora ha accampato anche delle difficoltà di lingua, di comprensione”. Invocando l’assoluzione del suo cliente, l’avvocato ha quindi ribattuto al Pubblico ministero, sottolineato: “chi è razzista non intesta la casa alla moglie. Chi è razzista non diventa musulmano per sposarsi”. Secondo il legale, “ci sono state tante discussioni, queste sì, dopo la separazione, ma non si chiamano atti persecutori”.

Exit mobile version