Abolire l’abuso d’ufficio? “Preoccupante”, per il pm delle inchieste sulla politica

Il delicato tema, che fa litigare la politica nazionale, è stato affrontato dal sostituto procuratore Luca Ceccanti, in occasione del seminario promosso ieri ad Aosta dal Tar, senza sottrarsi a riflessioni non solo per “addetti ai lavori”.
Il pm Ceccanti interviene al seminario.
Cronaca

L’abolizione del reato di abuso d’ufficio? Una prospettiva “particolarmente preoccupante”, perché ad oggi è l’“unica norma incriminatrice” a riportare “nell’alveo del penalmente rilevante i comportamenti dei pubblici ufficiali che determinano ingiustificate posizioni di privilegio e che avvantaggiano taluno a detrimento di altri”. Parola di pubblico ministero. Non di uno qualsiasi, peraltro. Luca Ceccanti, alla Procura di Aosta dall’inizio degli anni duemila, si è seduto nel banco dell’accusa nei principali processi sulla pubblica amministrazione in Valle, con alla sbarra “vip” di piazza Deffeyes, ma anche medici, funzionari comunali e dirigenti. Uno che i cassetti delle scrivanie dei “colletti bianchi” li ha aperti, insomma.

Chiamato ad intervenire su un tema che fa litigare la politica nazionale, in occasione di un seminario promosso ieri dal Tar della Valle d’Aosta, il sostituto del procuratore capo Paolo Fortuna non si è sottratto, con lo stile diretto (ma non sensazionalista) che i cronisti hanno imparato a conoscere in aula. Così, se per il Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il codice penale va evirato dell’abuso d’ufficio perché “non posso bloccare 8mila sindaci per la paura che uno possa essere indagato”, Ceccanti osserva che significherebbe “conculcare la sfera di libertà dei cittadini e sacrificarla sull’altare dell’autorità pubblica, esercitata al di fuori delle fisiologiche regole di gestione del potere”.

Sul piano tecnico, oltretutto, nella visione del magistrato che ha coordinato l’inchiesta CorruzioneVda ed è titolare di quella su appalti “addomesticati” nella Valtournenche, cancellare il delitto determinerebbe “significativi vuoti di tutela in quanto fuoriuscirebbero” dalla sfera penale condotte che, creando indebiti arricchimenti patrimoniali o danni, vulnerano “i principi cardine dell’intera azione amministrativa”. Non solo, perché l’abuso d’ufficio è posto pure a presidio della “difficile e continua opera di selezione e comparazione degli interessi” cui è chiamata la pubblica amministrazione in un moderno Stato di diritto.

Per carità – ha riflettuto a voce alta il pm – “l’evidente antipatia della classe politica” nei confronti dell’articolo 323 del codice penale “non può sfuggire agli osservatori”. Per effetto di essa, la norma è stata, negli anni, “progressivamente depotenziata” (quando, fino al 1997, consentiva “amplissime possibilità investigative tra le quali, in primo luogo il ricorso a intercettazioni telefoniche od ambientali”, come “Tangentopoli” ha insegnato alla prima Repubblica). Oggi, poi, si traduce in quelle “vagheggiate proposte di modifica” che “vorrebbero ricacciare le condotte abusive dei detentori di poteri pubblici nella vasta ‘riserva’ della bagatella penale o, come espressamente propalato, dell’auspicata irrilevanza criminale”.

La verità è che “la condotta abusiva del pubblico ufficiale appare connotata di significativa gravità”, perché incarna la strumentalizzazione di prerogative “il cui esercizio dovrebbe essere caratterizzato da correttezza e trasparenza assolute”. Ceccanti non ha fatto mancare esempi: il membro di una commissione esaminatrice che favorisca un candidato in danno di altri, o l’amministratore che, approfittando dell’affidamento diretto, assegni incarichi o lavori ad un parente o a un amico. Tutti comportamenti che – ha soppesato ogni parola – “sacrificano in modo grave la sfera di libertà individuale di coloro i quali vengono ad esserne pregiudicati”.

Per concludere, rimanendo nel solco dei temi che infiammano il dibattito nazionale, “in un ordinamento che ancora considera reato, esemplificando, la mera situazione di irregolare permanenza dello straniero sul territorio nazionale o, ancora esemplificando, la mera messa in commercio di prodotti derivati dalla Cannabis, tutti fatti privi di concreta portata offensiva, appare discutibile privare al contrario di rilevanza penale fatti concreti, che presentano una violazione” delle norme sul procedimento amministrativo e, soprattutto, della Costituzione.

Quella carta fondamentale che, ha ribadito non senza orgoglio il vicario del Procuratore capo di via Ollietti, “è stata scritta da Calamandrei e Dossetti, non da un manipolo di trogloditi”. Però, è stata la conclusione di Ceccanti, prendendo a prestito alcune parole dell’accademico americano Noam Chomsky, “è molto frequente che le vittime comprendano un sistema meglio delle persone che tengono in mano il bastone”. Lì si è dovuto fermare, da magistrato consapevole del suo ruolo, che non gli ha consentito di aggiungere quanto non è tuttavia precluso alla stampa: oltre a non capirlo, il vero rischio, in quest’era di schizofrenia e contraddizioni continue, è nel fatto che abbiano in mano anche la penna per scrivere le leggi.

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