Bracciante romeno morto ad Arnad, spunta il caporalato
“È arrivato in Italia tramite il caporalato. Una persona si proponeva, tramite un account Facebook, di procurare della manodopera”. È un passo della testimonianza resa nella mattinata di oggi da un sottufficiale dei Carabinieri, nel processo a due valdostani accusati dell’occultamento del cadavere del bracciante romeno Aurelian Cochior, 42 anni, ritrovato senza vita il 5 agosto 2017, in un prato a Fornelle di Arnad.
Imputati sono Piersandro Cout (49 anni, di Verrès), ed Aldo Janin (74, di Arnad), rispettivamente il proprietario e l’operaio di un alpeggio in cui l’uomo deceduto aveva lavorato “senza regolare assunzione”. Stando ai tabulati del suo telefono cellulare, ha spiegato il militare, “Cochior è arrivato in Italia venerdì 21 luglio, alle 7 del mattino”. Le sue tracce si smarriscono subito dopo, tra sabato 22 e domenica 23.
La chiamata che segnala il cadavere, non lontano dal sentiero, circa duecento metri sotto l’alpeggio, arriva al 112 “alle 17.40 del 5 agosto”. I Carabinieri intervengono e trovano il corpo “senza calze, senza calzature”, ma “con la pianta dei piedi liscia”. Non aveva documenti addosso. La salma era decomposta e per identificarla ci è voluto il raffronto del Dna con un parente. Nell’ambito delle indagini, l’ipotesi del caporalato (legata all’organizzazione di pulmini dalla Romania alla Valle, per soddisfare le richieste degli allevatori) è stata segnalata dal Nucleo operativo della Compagnia di Châtillon/Saint-Vincent ai colleghi dell’Ispettorato del lavoro.
A dare l’allarme risulta essere stato un figlio di Aldo Janin. “Sono salito con la moto da trial a fare visita ai miei genitori (che hanno una seconda casa nel villaggio, ndr.). – ha raccontato dinanzi al giudice monocratico Marco Tornatore – Già salendo ho sentito, all’altezza di Fornelle, un forte odore”. L’uomo scende che “saranno state le 16” e “di nuovo ho sentito quell’odore: pensavo di trovare un manzo morto, poi mi sono sporto e ho visto il cadavere. Sono tornato dai miei genitori”.
Dalle verifiche dell’Arma, tra le 16 e l’ora della segnalazione al pronto intervento, dal telefono dell’uomo partono diverse chiamate. La prima, alle 16.34, è diretta a Piersandro Cout. “Parlano per quasi 6 minuti”, ha sottolineato il sottufficiale. Alle 17.13, invece, il destinatario è un Vigile del fuoco. Poi, diciassette minuti dopo, una seconda telefonata al proprietario dell’alpeggio: “stavolta per 7 minuti”. “Ci siamo chiesti: – è stato l’interrogativo a voce alta del militare – ‘cosa accade in quell’ora tra la telefonata e il nostro intervento?’”.
Il pm Eugenia Menichetti, titolare del fascicolo, ha incalzato il testimone su quelle conversazioni. Lui ha affermato che “mio papà, sapendo che si era allontanato un operaio, ha chiamato Cout, ma lui è rimasto sorpreso. Il mio telefono poi si è scaricato e sono tornato fino a casa mia. Ho avvisato dell’accaduto un mio collega, capodistaccamento dei Vigili del fuoco. Poi, ho cercato Cout per capire se avesse già chiamato i soccorsi. Capito di no, lo ho fatto io”.
“Perché non avete chiamato immediatamente?”, ha chiesto il Sostituto procuratore all’uomo. “Eravamo confusi…” è la risposta. Il pm Menichetti obietta che quella “telefonata ha una durata rilevante”. Premesso che prima il padre ha parlato con Cout, poi “me lo ha passato e gli ho spiegato dove fosse il cadavere”, l’uomo ha concluso “eravamo confusi, sicuramente ci siamo ripetuti le stesse cose”. Il processo è stato aggiornato all’8 marzo prossimo, per sentire i testimoni della difesa.