I pentiti disegnano la Valle della ‘ndrangheta al processo “Geenna”
La cartina della Valle d’Aosta disegnata dai pentiti della Dda di Torino? Una terra ove i fratelli “Giuseppe e Bruno Nirta avevano un’influenza” a “livello di ‘ndrangheta”, intendendo con ciò che “comandavano ad Aosta, erano stabili lì”. Anche un luogo nel quale un affiliato alla criminalità organizzata di Cinquefrondi (Reggio Calabria), alla fine degli anni novanta, per lo smercio di cocaina “si appoggiava su” due ragazzi “vicini a noi ‘ndranghetisti”, solo che poi “ebbero dei problemi di soldi e si spararono”. E ancora, un luogo in cui un “locale” esiste “da una vita” e dove, tra vari traffici, vennero nascosti due “Kalashnikov di provenienza cinese”.
Circostanze rivelate dai tre collaboratori di giustizia sentiti come testimoni nell’udienza di oggi, sabato 11 luglio, del processo “Geenna”, trasferitosi dal Tribunale del capoluogo all’aula bunker del carcere delle Vallette di Torino. Il primo a rispondere alle domande del pm Stefano Castellani, in videoconferenza da una località protetta, è stato Domenico Agresta, pluricondannato per omicidio e per associazione a delinquere di stampo mafioso (tra l’altro, nell’operazione “Minotauro” sull’infiltrazione ‘ndranghetista in Piemonte), che ha deciso di collaborare con lo Stato nel 2016, “perché non mi ritrovavo più negli ideali della famiglia e di altri soggetti affiliati”.
Un affiliato di nome Di Donato
E’ il padre, Saverio Agresta, colui che vistosi incarcerato deciderà di farlo entrare nell’“onorata società” nel 2008, a parlargli un giorno “di un locale di Bardonecchia e uno di Aosta”, ma “non siamo scesi in particolari”, più che altro “ho conosciuto delle persone affiliate che ne fanno parte”. Alla domanda sull’identità di queste, il collaboratore indica per primo “un certo Di Donato che era in carcere con me ad Asti”, un “ragazzo pelato”, nipote “di Giuseppe Nirta, il fratello di Domenico”. A presentarglielo è “mio zio Mimmo Marando”, anch’egli allora detenuto, dicendo “che le nostre famiglie sono cresciute insieme”.
“Ci siamo fatti una passeggiata, nel campo del carcere”, è il ricordo del pentito, e “mi pare che lui avesse la dote di ‘Sgarro’”. Agresta sostiene di essere in grado di riconoscerlo in foto, ma quando l’accusa fa sì che gli venga sottoposta una serie di immagini, non lo individua. Oltretutto, Marco Fabrizio Di Donato, co-imputato nel processo “Geenna” (ma dinanzi al Gup di Torino, perché ha scelto il rito abbreviato), sentito nel pomeriggio come testimone, smentirà che un suo fratello sia mai stato in carcere ad Asti, bensì “ad Alessandria”. Agresta ha poi indicato di aver incontrato durante la detenzione, quale altro appartenente alla cellula aostana, “Giuseppe Nirta il fratello di Domenico, che mi ha spiegato tutti i collegamenti con la mia famiglia”.
“Certe cose sono sottintese”
Il pm Castellani ha contestato al collaboratore di essere stato meno preciso, in un precedente interrogatorio, sulla “locale” del capoluogo regionale. Lui ha ribattuto: “tra di noi certe cose sono sottintese. Le viviamo, ci conosciamo. E’ logico, fra di noi è automatico che quando uno è affiliato e comanda c’è il ‘locale’”. Dicendo delle attività criminali di Giuseppe e Bruno Nirta (il primo ucciso in Spagna nel 2017 e l’altro imputato di punta del processo torinese “Geenna”), il pentito ha evocato di aver “fatto parte di una trattativa di cocaina”, per cui “ci sono andato anch’io una volta ad Aosta. Credo fosse il 2007/8”. Comunque, i due fratelli “comandavano ad Aosta”, e Agresta ha detto di sapere “dei contatti che avevano loro con il cugino, i parenti lì”, in particolare “Giuseppe, fratello di Domenico”, che aveva nei loro confronti “reverenza”.
Droga da Cinquefrondi alla Valle
Rocco Francesco Ieranò, pentitosi nel 2013, dopo essere entrato nella “locale” di Cinquefrondi (Reggio Calabria) quasi vent’anni prima, ha risposto “non so” alla domanda sull’esistenza di una cellula in Valle, ma “ci sono ragazzi vicini a noi ndranghetisti in Valle d’Aosta”. Due persone che ha detto di conoscere personalmente, perché provenienti dallo stesso suo paese, ai quali un altro affiliato con la dote di “Vangelo”, “mandava su la droga”. Solo che poi “mi raccontò un episodio dove i due ebbero un litigio per questioni di soldi”, nei primi anni duemila, “quando sono uscito di carcere la prima volta”. Sulla conoscenza di altri ‘ndranghetisti residenti in Valle, il collaboratore ha risposto “no”, sia con riferimento a Cinquefrondi, sia ad altre località calabresi (“in Valle d’Aosta non so quale ‘locale’ ci sta”).
La “locale” ad Aosta “da una vita”
Infine, è stata la volta di Daniel Panarinfo, finito in manette nel luglio 2016 per traffico di stupefacenti, che ha iniziato a collaborare poco dopo con gli inquirenti, offrendo un contributo ritenuto significativo alle indagini che hanno condotto all’operazione “Geenna”. “Compare” di Bruno Nirta, con il quale “ci frequentavamo per motivi criminali”, era prossimo all’ingresso nell’associazione criminale calabrese, fermato dall’arresto (il “taglio della coda” era in programma per settembre 2016, in occasione della festa della Madonna di Polsi).
Nirta, ha spiegato Panarinfo, “mi fece presente la disponibilità di sostanza stupefacente e io mi misi a disposizione ad accompagnarlo, a stare con lui”. Il presunto boss “mi disse che era stato affiliato dopo il ritorno dall’Australia, quindi dopo il 1985”. “Io sapevo che apparteneva al locale di San Luca, – ha aggiunto – ma che aveva delle corrispondenze ad Aosta, che frequentava il locale di Aosta”. Il collaboratore ha riferito di essere stato “diverse volte” nel capoluogo regionale, ma mai con il presunto boss.
Quanto alla “data di nascita” della “locale” cittadina, il pentito ha confermato al Pubblico ministero che Nirta usò, al riguardo, l’espressione “da una vita”. “Mi pare che i suoi parenti vennero ad Aosta negli anni ’50/60, – ha sottolineato – fecero l’immigrazione lì comunque”. “La cosa che mi diceva è che non potevano commettere reati, Bruno e Giuseppe, perché erano molto sorvegliati ad Aosta, a causa di diverse indagini che c’erano state”. Però, “avevano diversi appoggi”, perché “il figlio di un esponente della Dia, una volta, informò Giuseppe della presenza di una microspia nell’auto”.
“Brillantina”, l’aiuto dei Nirta in Valle
Quanto ad altri “partecipi”, “mi parlavano di un loro sodale, una persona a loro molto vicina, soprannominata Brillantina (nomignolo che l’Ordinanza di custodia cautelare che ha fatto scattare il “blitz” del 23 gennaio 2019 attribuisce a Francesco Mammoliti, altro accusato di aver fatto parte della “locale” emersa dall’inchiesta, a giudizio a Torino con l’abbreviato, ndr.). Me ne parlavano entrambi, sia Giuseppe, sia Bruno. Dicevano che era un loro appoggio, li aiutava in Val d’Aosta, era di San Luca e aveva fatto detenzione con Bruno”.
Secondo le confidenze ricevute da Panarinfo, e rivelate durante la collaborazione, Nirta e “Brillantina” erano “detenuti insieme per un determinato periodo”, ma il secondo “aveva un atteggiamento paranoide e Bruno dovette ‘rimetterlo a posto’, dicendogli di comportarsi in modo decoroso”. Un altro episodio riferito è che “‘Brillantina’ aveva un furgone e forse trovò delle microspie”. Infine, il pentito ha segnalato il coinvolgimento dei due in una “rissa in un bar” di Aosta, con dei valdostani. Ci fu l’intervento delle forze dell’ordine, che “forse parlarono con il barista, ma questi ‘se la portò buona’”, cioè “non riferì nulla”.
Il taglio della coda? “Una battuta…”
L’udienza si è chiusa con Marco Fabrizio Di Donato che, ascoltata l’intercettazione del gennaio 2016 in cui parla con l’imputato Nicola Prettico dell’ipotesi di “tagliare la coda” (gergalità che definisce l’affiliazione alla ‘ndrangheta) all’altro presunto “partecipe” Alessandro Giachino, ha liquidato quell’espressione“solo una battuta”, che “andava contestualizzata”. “Il senso di quelle parole – ha commentato colui che Carabinieri e Dda di Torino ritengono essere stato al vertice della “locale” di Aosta – lo spiega anche la risata alla fine”. In carcere, per Di Donato, “quelle battute lì sono all’ordine del giorno”, ma Giachino “nemmeno sapeva cosa voleva dire”, perché “è anni luce lontano dalla criminalità”.
“Mai, mai, mai” incontrato Rollandin
Smentendo le parole di un’altra conversazione registrata dai Carabinieri del Reparto operativo, l’imputato-testimone ha negato (“mai, mai, mai, era tutta una chiacchiera”) di aver incontrato l’ex presidente della Regione Augusto Rollandin. “Se ci fosse stato quell’incontro sarebbe stato visionato da qualcuno. – ha dichiarato, con fare sicuro, quasi di sfida, al pm Castellani – Può anche essere che abbia detto che Rollandin riceve ogni martedì mattina nel suo ufficio”. Quanto alle elezioni comunali di Saint-Pierre del 2015, a Di Donato non ne “importava nulla”, anche perché “sono interdetto dai pubblici uffici da tempo” e non sapeva nemmeno che Monica Carcea (ex assessore accusato di concorso esterno nel sodalizio criminale) fosse candidata.
I “precedenti li ho pagati”
“Non appoggiavo la Favre e nemmeno la Carcea, – è stato il commento in merito – certo quando portava sua figlia a fare lezioni di matematica da mia moglie siamo finiti sul discorso e le ho detto che se potevo le avrei dato una mano. Vuol dire che se avessi incontrato qualcuno a Saint-Pierre gli avrei detto di votarla, ma io non le ho portato un voto”. Sulla sua vicenda personale, rivolgendosi al collegio presieduto da Eugenio Gramola, Di Donato ha dichiarato: “ogni persona che ha avuto a che fare con me gli è stato chiesto ‘lei sapeva che aveva precedenti, perché lo frequentava?’. Io quei precedenti li ho pagati. Io non ho avuto la lebbra, né la peste bubbonica. Mi sono rifatto una vita. Se poi ogni cosa, per la mia inflessione, per la mia parentela… ma la parentela non la puoi scegliere”. Soprattutto, “che non mi venga cucito addosso qualcosa che non è la mia misura”. Il processo riprenderà al Tribunale di Aosta il 23 luglio.