‘Ndrangheta, la Procura contesta quattro false testimonianze al processo “Geenna”
Conclusi gli accertamenti, secondo la Procura della Repubblica quattro testimoni del processo “Geenna” – chiusosi ad Aosta lo scorso settembre con cinque condanne, tra associazione di tipo mafioso e concorso esterno nel sodalizio ‘ndranghetista emerso dalle indagini – hanno reso false deposizioni. Gli avvisi di chiusura delle indagini coordinate dal pm Luca Ceccanti hanno raggiunto, negli scorsi giorni, l’ex dirigente del Casinò Walter Romeo, i fratelli Daniele e Luciano Cordì e Pasqualina Macrì. I profili di reticenza, omertà e mendacità nelle loro testimonianze erano stati segnalati, al momento del deposito della sentenza, dal Tribunale, con la trasmissione degli atti all’ufficio inquirente diretto da Paolo Fortuna.
Per Romeo, sentito sulla mancata restituzione di un orologio Bulgari di sua proprietà da 2.500 euro (che le indagini hanno accertato essere passato nelle mani di Marco Fabrizio Di Donato, condannato, in abbreviato, dal Gup di Torino quale capo della “locale” aostana), i giudici avevano segnalato “una sconcertante arrendevolezza” e un comportamento “insolitamente remissivo”, tale da non trovare – ai loro occhi – “alcuna altra plausibile spiegazione se non” il fatto “che egli tuttora teme i fratelli Di Donato” e Alessandro Giachino (dipendente del Casinò, processato e ritenuto colpevole di aver partecipato al sodalizio ‘ndranghetista cittadino).
I fratelli Daniele e Luciano Cordì, invece, erano stati citati per deporre sullo “sgarbo che sarebbe stato commesso” ai danni di un artigiano cognato di Antonio Raso (ristoratore condannato quale figura centrale della “locale” aostana), che non avrebbe ricevuto lavori in un cantiere edile a Torgnon, “procurato” ai due dal ristoratore. Nei loro confronti, per gli estensori della sentenza del procedimento aostano “Geenna” (il presidente Eugenio Gramola e i magistrati Maurizio D’Abrusco e Marco Tornatore), il gruppo Raso-Di Donato ha “inviato un preciso avvertimento di natura mafiosa”.
In particolare, uno dei due, testimoniando, avrebbe ricondotto “l’intervento di Raso in un contesto di assoluta normalità”. L’altro, nonostante le ripetute contestazioni, “ha assunto un atteggiamento di manifesta reticenza”, giungendo “a negare di avere reso agli inquirenti le dichiarazioni che gli sono state lette”. La spiegazione dei magistrati giudicanti è netta: entrambi hanno preferito mantenere fede al “codice d’onore ‘ndranghetista”, nonostante le possibili conseguenze penali e dimostrando che il metodo “intimidatorio” degli imputati “era pienamente percepito ed evidentemente condiviso nell’ambiente di riferimento”.
Quanto, infine, a Pasqualina Macrì, la contestazione concerne la giustificazione data a 100 euro ricevuti dalla donna, a seguito dell’arresto di suo figlio Luigi Fazari, da parte del ristoratore Raso, che gliel’avrebbe inviati tramite la madre, vicina di casa della testimone a San Giorgio Morgeto, in Calabria. Per i giudici, “perdono ogni credibilità le risibili spiegazioni offerte da Raso con il sostegno della teste”, per cui quei soldi fossero destinati “alle brioches dei figli dei Fazari” (nell’inchiesta avevano il senso di una “assistenza ai detenuti”).
Gli indagati sono nella fase in cui possono chiedere al pm di essere sentiti, o di compiere ulteriori atti d’indagine, nonché di depositare memorie o documentazione. Dopodiché, la parola tornerà alla Procura per decidere sulle richieste di rinvio a giudizio. Il processo “Geenna”, iniziato a giugno 2020, aveva visto sfilare in aula, su richiesta dell’accusa (i pm Stefano Castellani e Valerio Longi della Dda di Torino, che avevano coordinato i Carabinieri del Reparto operativo del Gruppo Aosta) e dei difensori dei cinque imputati, quasi cento persone.