Depurazione delle acque, la Valle d’Aosta rischia una sanzione di 5 milioni di euro
Anche la Valle d’Aosta è nel mirino della Commissione europea, nell’ambito della procedura d’infrazione aperta a carico dell’Italia in materia di depurazione delle acque. Due sono infatti le realtà del territorio regionale (o, per usare il linguaggio dei documenti ufficiali, gli “agglomerati”) che compaiono nel lungo elenco di contestazioni mosse da Bruxelles al nostro Paese rispetto all’applicazione della direttiva sul trattamento dei reflui, risalente al 1991 (e recepita da Roma nel 2006).
Non è tutto. Siccome le inadempienze italiane nel settore paiono essere ataviche, quella in corso è la terza procedura d’infrazione nel giro di dieci anni. Guardando alla precedente, relativa al 2009, si scopre che l’Italia è stata condannata per un altro caso valdostano di mancato adempimento alle norme comunitarie, mirate ad assicurare un “elevato livello di protezione dell’ambiente e, di conseguenza, della salute dei cittadini dell’Unione europea”.
Non è ancora tutto. Tra chi continua a scaricare in mare, convinto che le correnti siano una depurazione sufficiente, e chi immette i reflui in terra, senza porsi troppe domande, l’Italia sembra veleggiare a velocità sostenuta verso la terza condanna: esiste già una “messa in mora” da parte delle istituzioni comunitarie e l’esito della procedura d’infrazione in corso sembra scritto. Significa che arriveranno anche le sanzioni economiche e non si parla esattamente delle cifre dopo la virgola.
In un comunicato stampa del Governo italiano, emanato nei giorni del “parere motivato” ricevuto da Bruxelles lo scorso marzo, si mette nero su bianco che l’Italia potrebbe vedersi applicare, qualora nuovamente condannata, sanzioni che, “secondo una prima simulazione” ammonterebbero ad un “totale di 476 milioni di Euro l’anno, dal 2016 e fino al completamento delle opere” necessarie a superare le infrazioni. Secondo lo stesso documento, 5 milioni sarebbero relativi alle non conformità della Valle d’Aosta.
Cifre che hanno destato non poche preoccupazioni in Regione. Difficile, infatti, pensare che uno Stato sanzionato per importi del genere non immagini di rivalersi sulle realtà inadempienti. Da Aosta hanno telefonato a Roma, al Ministero dell’Ambiente, sentendosi rispondere che, al di là del clamore dei comunicati stampa, un calcolo del genere non è così semplice.
“Le sanzioni – è la spiegazione fornita – vengono determinate dalla Commissione europea stessa, che considera: la gravità dell’infrazione (secondo un criterio numerico discrezionale, influenzato dalle risposte fornite caso per caso e dalle azioni messe in atto per ogni sito), la durata della situazione irregolare e la capacità economica del paese membro, calcolata ed aggiornata sulla base del Prodotto Interno Lordo. La sanzione viene applicata come ‘pacchetto’ nazionale globale e non è possibile separare l’entità delle singole fonti d’infrazione”.
Insomma, se e quanto si pagherà, ad oggi resta il dato sullo sfondo della vicenda. In primo piano, però, c’è molto altro.
Gli obblighi normativi
Facciamo un passo indietro. Cosa chiede, esattamente, l’Europa agli Stati membri? In sostanza, tutti gli agglomerati “con carico generato maggiore di 2.000 abitanti equivalenti” debbono essere “forniti di adeguati sistemi di reti fognarie e trattamento delle acque reflue, secondo precise scadenze temporali, in funzione del numero degli abitanti equivalenti e dell’area di scarico delle acque”.
All’Assessorato regionale all’Ambiente, sia l’assessore Luca Bianchi, sia i tecnici competenti per la “tutela delle acque”, sono sostanzialmente concordi nel ritenere che il parametro della popolazione equivalente, nelle misure individuate da Bruxelles nella direttiva, “sia probabilmente stato definito osservando territori pianeggianti”, con un’applicazione che si fa più complessa nei casi di agglomerati montuosi e dalla morfologia non lineare, come quelli valdostani. Considerando le grandezze dei comuni del fondovalle e delle vallate laterali appare una teoria verosimile, ma la direttiva così è stata scritta e così l’Europa ne esige l’applicazione.
Il controllo comunitario
Oltretutto, almeno nelle intenzioni, l’Unione non è disposta a tollerare chi lascia cadere nel vuoto le sue prescrizioni, soprattutto se riguardanti la salute collettiva. Le “scadenze temporali” per dotarsi delle reti fognarie e dei sistemi di trattamento previsti, sul suolo italiano, sono ampiamente trascorse in un mucchio di casi ed ecco che, nel 2004, scatta la prima procedura d’infrazione.
La prassi prevede che la Commissione comunichi allo Stato interessato l’elenco dettagliato delle inadempienze rilevate. La nazione che finisce sotto la lente d’ingrandimento, ogni sei mesi si vede richiedere la situazione aggiornata, caso per caso, con le eventuali misure adottate per superare le carenze. Se le stesse perdurano, o non vengono risolte definitivamente, la Corte di Giustizia europea viene sollecitata dalla Commissione a pronunciarsi in merito. Succede il 19 luglio 2012, quando la settima sezione della Corte riempie dodici pagine (sentenza C565-10) per spiegare quali, e quante, siano le carenze depurative per cui “la Repubblica Italiana è condannata”.
Un verdetto che non basta, però, a migliorare la situazione globale, al punto che nel 2009 si apre una nuova procedura. E’ questo il momento in cui la Valle d’Aosta fa capolino la prima volta. L’Europa solleva il caso di Courmayeur, che – a dire di Bruxelles – non rispetterebbe due articoli della direttiva del 1991, relativi alla necessità di sottoporre i reflui che confluiscono in reti fognarie a trattamento secondario, prima del loro scarico, ed al fatto che la realizzazione degli impianti necessari a tale trattamento debba garantire prestazioni sufficienti “nelle normali condizioni climatiche locali”, oltre ad essere progettata tenendo conto “delle variazioni stagionali di carico negli agglomerati di riferimento”.
“Cartellino rosso” per la Valle
Il problema non pare essere poi così teorico: la decima sezione della Corte di giustizia Europea, il 10 aprile 2014 condanna l’Italia anche per l’agglomerato di Courmayeur (sentenza C 85-13). In realtà, spiegano in Regione, meglio sarebbe riferirsi alla Valdigne, più che al comune ai piedi del Bianco, perché “un problema di scarichi non trattati c’era ed è stato individuato nella zona di La Salle”, dove si è poi deciso di realizzare un depuratore comprensoriale.
“Con l’ultimo report, trasmesso a luglio 2015 – aggiungono dall’Assessorato – è stato confermato che i lavori procedono come da cronoprogramma approvato. Le tempistiche previste per la conclusione dell’intervento e per l’entrata in funzione dell’impianto, e successiva messa a regime dello stesso, sono rispettivamente settembre 2017 e dicembre 2018”. Si dovrebbe così, per allora, giungere alla conformità alla direttiva.
La nuova procedura d’infrazione
L’Italia, malgrado le due condanne subite, continua a presentarsi a livelli di depurazione tutt’altro che degni di un Paese moderno. Inesorabile, lo scorso marzo, da Bruxelles arriva a Roma un “parere motivato” sulla terza procedura d’infrazione, aperta nel 2014 con la “messa in mora” dello Stato. Tutto lascia presagire si tratti dell’ultima ammonizione, prima di un ulteriore intervento della Corte di Giustizia.
Nel documento, anche due agglomerati valdostani: Arnad e Pont-Saint-Martin. Per il primo, scrivono dalla Commissione europea, “pur prendendo atto di quanto comunicato dalle autorità italiane, i risultati degli impianti di trattamento non sono stati forniti. Pertanto, finché tali informazioni non saranno trasmesse, l’agglomerato sarà considerato non conforme”.
La causa scatenate dell’osservazione, stavolta, non è la carenza impiantistica, perché un depuratore in zona esiste e, assieme ad alcuni sistemi a servizio di piccoli centri abitati del comune, tratta tutti i reflui dell’agglomerato. Alla base dell’infrazione vi sarebbe, secondo l’Assessorato, una questione di interpretazione dei dati. “Il carico generato è stato rivalutato, – spiegano negli uffici – in quanto il valore comunicato in precedenza era comprensivo anche del conferimento con mezzi mobili di liquami organici concentrati e fanghi a base organica provenienti da siti al di fuori dall’agglomerato di Arnad”. In sostanza, una “rilettura” che dovrebbe essere sufficiente a raggiungere la conformità.
Più complessa, invece, si presenta la questione di Pont-Saint-Martin (il cui agglomerato, per numero di abitanti, include anche Donnas). La zona è effettivamente servita da reti fognarie e sistemi individuali, che effettuano in parte il trattamento. Manca però quello che l’Europa chiama trattamento “terziario”, per il quale è in fase d’appalto la costruzione di un depuratore comprensoriale, nel comune di Donnas.
“La fine lavori presunta – commentano dall’Amministrazione – è stata dichiarata per dicembre 2018. Nel mentre, abbiamo prodotto i risultati della rete di monitoraggio regionale della qualità delle acque, in due punti idonei a rilevare anche un eventuale impatto negativo sulle acque riconducibile all’assenza, ad oggi, dell’impianto di depurazione comprensoriale. Dati che confermano l’assenza di inquinanti”. La preoccupazione, tuttavia, è che i tempi di costruzione dell’impianto possano essere giudicati eccessivamente lunghi dalla Commissione.
In effetti, se le sanzioni restano una questione sospesa, alla fine di tutto una domanda risulta difficile da rinviare. Malgrado l’elenco delle non conformità italiane contenga casi clamorosi, e alcune Regioni brillino addirittura per l’assenza di risposte alle richieste ministeriali di report, per quanto riguarda la Valle d’Aosta, in due casi su tre, sono emerse carenze nei trattamenti e nella presenza sul territorio regionale di impianti per eseguirli. Era proprio necessario arrivare ad anni duemila inoltrati per rendersene conto?