“Mi giocavo anche mille euro al giorno”, un ex giocatore d’azzardo racconta la sua storia
A vederlo diresti che è uomo come tanti, di bell’aspetto, istruito, con un lavoro, una moglie e una figlia. Eppure Bruno, 55 anni di Aosta, ha una storia da raccontare, una di quelle storie “pesanti” che non ti lasciano indifferenti. Bruno è un ex giocatore d’azzardo, con alle spalle 12 anni di gioco alle macchinette dei bar e delle sale giochi. “La mia è stata in tutto e per tutto una malattia, una dipendenza, come quella di chi abusa di sostanze, la fregatura è che il gioco d’azzardo non ti lascia segni sul volto e sul corpo e quindi puoi fingere, raccontare e raccontarti bugie più a lungo, prima di renderti conto che hai bisogno di aiuto”.
L’inizio è avvenuto quasi per caso: “quando sono comparse le prime slot ho iniziato ad osservare chi giocava e, con il tempo, mi sono convinto di avere capito il meccanismo di funzionamento. Pensavo di essere la persona più furba del mondo”.
Decide, quindi, di provare: si avvicina ad una di queste slot e con una giocata di un euro si porta a casa 840 euro. E poi una seconda, ne vince 600 e una terza, 400. “A quel punto per me è diventato un secondo lavoro: pensavo di aver trovato il modo per portarmi a casa una seconda rendita senza troppa fatica”.
Nulla di più sbagliato: Bruno continua a giocare e inizia a perdere, prima piccole cifre, poi poste sempre più importanti. “Sono arrivato a giocare e a perdere nello stesso giorno anche mille euro”.
Come tutti i giocatori compulsivi anche Bruno si trova a vivere diverse fasi della sua malattia: “prima giochi per vincere, poi giochi per recuperare e alla fine giochi per giocare, perché ne senti il bisogno, non puoi farne a meno, non riesci più a fermarti”.
Da quel momento la trafila è per tutti i giocatori pressoché la stessa: arrivano i debiti, il dissesto finanziario. “Avevo prestiti con finanziarie, debiti nei bar e con tantissime persone. Nonostante non riuscissi ad onorare le rate le finanziarie continuavano a propormi liquidità e denaro”
Per molti al dramma finanziario si accompagna la perdita del lavoro e l’allontanamento della famiglia. “Io sono stato “fortunato”, se si può dire così perché non ho ancora accanto a me la mia famiglia e ho conservato il lavoro nonostante 6 mesi di sospensione”.
Ci sono stati, però, dei momenti tragici, che per Bruno passano anche attraverso la commissione di reati. “Arriva un momento in cui l’unica strada non solo per giocare, ma per continuare a vivere è quella di infrangere la legge”. Bruno sale agli onori della cronaca per aver partecipato al furto di tondelli alla Verrès spa, bottino utile ad essere usato nelle macchinette. “Quello è stato il punto di non ritorno, finisci sui giornali, vieni giudicato e additato, ancora oggi in bassa Valle mi chiamano mister tondello”.
I reati però contribuiscono a mettere Bruno di fronte a un bivio: continuare la sua non vita oppure farsi aiutare iniziando un percorso serio di cura e ammettendo soprattutto a se stesso la sua patologia”. E sceglie questa seconda strada, entra in comunità e inizia un percorso terapeutico di oltre un anno e mezzo che lo porterà a disintossicarsi.
“Prima delle sentenze e dell’esecuzione penale, ho scelto di andare a vivere nella comunità Bourgeon de vie, non tanto per evitare il carcere, ma perché in quel momento sono diventato consapevole che da solo non ce l’avrei mai fatta”.Il Bourgeon de vie è stata la prima comunità in Valle ad affrontare il problema del gioco d’azzardo accogliendo i giocatori in comunità offrendo loro un percorso di cura e di lavoro specifico. “Lo hanno fatto e lo fanno in modo professionale” sottolinea Bruno. E su questo insiste: “è un passaggio fondamentale da comprendere per qualsiasi giocatore: il gioco d’azzardo compulsivo è una malattia che ha bisogno di specifiche cure e da soli non ce la si può fare”.
Ora, a distanza di tempo Bruno è uno dei fondatori dell’associazione “Miripiglio – Sos gioco d’azzardo”, un’organizzazione di volontariato che si propone di diventare un punto di riferimento per i giocatori in Valle d’Aosta, un trait d’union che li aiuti a rivolgersi ai servizi e a intraprendere un percorso di cura. “Siamo tre ex giocatori, insieme alle nostre famiglie e in noi, dopo l’esperienza della comunità, è nata la voglia di mettere a disposizione la nostra esperienza, i nostri errori, ciò che abbiamo imparato a che possono essere interessati e coinvolti da questo problema”.