Ritornare a produrre nel 2020

29 Aprile 2020

Ho atteso le dichiarazioni in merito alle disposizioni della Fase2.

Con certezza so che dal 4 maggio continuerò a vedermi con mio figlio, con cui abito. Bene, i miei affetti sono salvi. So che potrò svolgere attività motoria, non necessariamente nei pressi della mia abitazione. Sono fortunata, potrò “arrampicarmi” sui viottoli della collina circostante. So che potrò farmi portare una pizza o addirittura andare a ritirare un pasto. Molto bene, pizzerie e ristoranti avranno un po’ di ossigeno. Già l’ossigeno!

Ora manca a chi non può ancora ritornare alla vita lavorativa, che dovrà attendere il prossimo decreto in cui saranno stabilite date e modalità di riapertura delle numerose realtà produttive della nostra Italia. Un paese fatto di aziende, medio-piccole, di esercizi commerciali, i tanti negozi e i numerosi luoghi di ritrovo che vivacizzano le nostre città, i banchi del mercato che rallegrano le nostre piazze, e di biblioteche, musei, teatri e cinema che ci regalano cultura e bellezza. Tutto fermo, con le rare e misurate eccezioni.

Due mesi, lunghi, soprattutto per chi ha accettato di rinunciare al proprio lavoro  in nome della salute. I lavoratori dipendenti, molti dei quali in attesa dei tanto annunciati ammortizzatori sociali, ma che ancora lo Stato non ha messo in campo. Senza dimenticare chi i paracaduti non li ha.

Due mesi, eterni, per chi da imprenditore, artigiano o da libero professionista ha accettato di “abbassare la propria serranda” e, in questo tempo, ha continuato a sostenere costi, pagamenti di utenze, di affitti o mutui, di prodotti invenduti e di investimenti non ancora messi a frutto, senza aver fatturato un euro. A questo si aggiungono le assurde procedure per accedere al prestito tanto sbandierato.

Più si allontana questo tempo, più alle difficoltà economiche si sommano quelle psicologiche.

Le aziende stanno pensando a come ripartire, nel tentativo di immaginarsi uno scenario che ancora il governo non ha definito, ma che sarà caratterizzato essenzialmente da una serie di misure volte al contenimento e al distanziamento. Saranno, quindi, costrette ad attrezzarsi se vorranno ricominciare. Certezza di  ulteriori spese per l’acquisto delle diverse dotazioni a tutela della salute dei lavoratori e dei clienti, incertezza di entrate, che comunque saranno insufficienti. Quindi, qualcuno si domanda se vale la pena rischiare.

E non dimentichiamo  i Comuni che registrano mancate entrate di tributi molto consistenti, necessarie per garantire i normali servizi per la comunità, a cui si aggiungono le  uscite per far fronte alle emergenze economiche delle famiglie.

Cari italiani non aspettiamoci di ritrovare le nostre città così come le abbiamo lasciate il 9 marzo. Non ci sarà nessuna bacchetta magica capace di cancellare gli effetti dirompenti che ha prodotto il famoso “lockdown”, nella nostra lingua “blocco”, “isolamento”.

C’è chi mi dirà: sono state salvate tante vite, era ed è necessario. Certo il distanziamento ha evitato il propagarsi del virus, ha salvaguardato l’assalto alle  strutture sanitarie nella quasi totalità delle regioni. Uno Stato, però, ha il dovere, superata la fase acuta di un evento, di valutare il rapporto costi-benefici e di assumere le decisioni per dare le dovute risposte ai cittadini che attendono sempre più ammutoliti e chiusi nelle proprie case in modo decisamente innaturale.

Fronteggiare il coronavirus, innanzitutto, non ci preserva dal “non morire”, come ben sappiamo la morte, dalle infinite cause, è la naturale conseguenza del nostro essere su questa terra, e, di contro, mette in luce le troppe incertezze e le molteplici difficoltà per la quasi totalità di coloro che sono in vita.

Lo Stato è davanti ad un bivio, collocare al primo e assoluto posto la salute fisica e, quindi, ipotizzare che un’intera popolazione resti bloccata e viva di sussidi o dando fondo ai propri risparmi (nessuno ne sarà esente) oppure rimettere in gioco il diritto al lavoro, rassicurando i propri cittadini, sulla base di numeri che, meglio di tante parole urlate e confuse, raccontano il virus e lo stato di salute dell’economia.

Continuare a non scegliere il ritorno alla normalità,  causerà, secondo attendibili stime, la perdita di un milione di aziende che non daranno più lavoro a milioni di persone.

Noi privilegiati, che, nonostante il fermo, abbiamo un lavoro e uno stipendio o una pensione, possiamo ancora pretendere il sacrificio degli altri italiani, che ne hanno pagato il prezzo fin da subito e che non sanno quale sarà il loro destino?

Concludo con quanto scritto da Primo Levi: sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine e che l’ozio o il lavoro senza scopo provoca sofferenza e atrofia.

Maria Teresa Riggio

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