I giovani alla prese con il Coronavirus tra rifiuto, noia e difficoltà a gestire il tempo libero
Torino. Sono uno studente universitario al primo anno di un corso di Laurea Magistrale. Le lezioni del secondo semestre sarebbero dovute iniziare lunedì 24 febbraio, ma il polo universitario, considerata la diffusione dell’epidemia di Covid-19, ha optato per una prima chiusura degli atenei. Risultato: aule spaccate in due. Da un lato c’era chi esultava per l’ulteriore settimana di “vacanza” (che dopo una sessione, ci sta, diciamocelo), dall’altra c’erano gli studenti, prevalentemente fuorisede provenienti dal Mezzogiorno, rattristati per aver lasciato le famiglie con inutile anticipo. Passa la prima settimana, l’iniziale paura lascia via via spazio ad aperitivi, serate nei locali e passeggiate lungo le vie della città.
Tutti sotto stimavamo molto la questione, la vita proseguiva, certo con l’accortezza di non prendere i mezzi in ora di punta e di lavarsi le mani con maggiore frequenza, ma tutto era nella norma. Temevamo, quasi, che saremmo dovuti tornare in università. Nessuno immaginava che, a dieci giorni di distanza, sarebbe stato emanato un Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che di fatto, blindava l’intera penisola per limitare il propagarsi del virus.
Tuttavia, queste poche righe non sono state scritte con l’obiettivo di raccontare le vicissitudini universitarie di uno studente valdostano a Torino. Lo scopo è un altro, ossia offrire uno spaccato di come giovani e giovanissimi (valdostani, ma non solo), stanno vivendo questo periodo.
Prima di iniziare la riflessione, si rende necessaria una premessa: pur trovandomi, geograficamente, fuori dal territorio valdostano, la mia passione per la fotografia mi ha permesso di mantenere alcuni contatti “a casa”. Il numero non è elevato e il campione, decisamente, non si presta a essere la base per nessuna ricerca di tipo scientifico. Quelle che seguiranno, saranno, quindi, unicamente, riflessioni personali scaturite dall’osservazione del comportamento che questi contatti hanno tenuto online, sui social, negli ultimi giorni.
Fino a metà della settimana appena trascorsa, il sentimento prevalente era quello di una totale noncuranza delle disposizioni ministeriali. Complici il basso numero di casi in Valle d’Aosta e la (falsa) credenza che i giovani e giovanissimi sono immuni, la vita procedeva a ritmi di pomeriggi in amicizia, aperitivi in centro, cene al ristorante e serate in discoteca. Un comportamento, questo, del tutto trasversale che interessava sia il ragazzino di prima superiore, sia il gruppo di studenti universitari che si ritrovava “à la maison”. Sembrava che la nostra “petite patrie” fosse davvero immune, sembrava che il virus, come hanno ironizzato in molti, visto il costo dell’autostrada, si fosse fermato a Quincinetto. Sembrava.
Arriva il weekend, come da disposizioni, i principali luoghi di aggregazione giovanili sono chiusi: è sabato sera, niente GetRich al Fashion, ragazzi, che si fa? La movida valdostana non poteva fermarsi. “L’alcol ci protegge”, dicevano quei signori del Padovano, e i giovani valdostani ci hanno creduto, eccome se ci hanno creduto! Per molti, il weekend è, infatti, trascorso tra piste da sci, après ski e festini privati improvvisati, ma ben documentati dalle decine di Instagram stories caricate sabato notte. Il tutto ignorando, deliberatamente, i consigli (diventati prescrizioni normative dalla mattina di martedì) delle autorità competenti. È proprio su questo punto che vorrei soffermarmi qualche istante: sulla non volontà di molti di attenersi a delle disposizioni, certo restrittive, ma pensate per salvaguardare un bene comune, ovvero la salute dei cittadini della Repubblica Italiana. “Noi stiamo tutti bene!”, “Nessuno ha la febbre, e poi siamo ragazzi, mica moriamo!”. NO, penso sia abbastanza chiaro, i giovani, pur non essendo immuni, hanno meno probabilità di incappare in disturbi respiratori gravi. E quindi, se a Milano si correva per accaparrarsi l’ultimo posto in treno per tornare al Sud, in Valle d’Aosta si correva attraverso le corsie della Cidac per comprare l’ultima bottiglia di super alcolico.
Tuttavia, il rischio di andare incontro a complicazioni respiratorie è solo uno dei rischi a cui si è esposti se si entra a contatto con persone, magari asintomatiche, ma infette. Il rischio meno tangibile e, quindi, più sottostimato è quello di un contagio di massa, quello che porta a un aumento dei casi di necessità di ricovero nei reparti di terapia intensiva per insufficienza respiratoria.
Questo, i ragazzi con cui ho avuto contatti (più o meno diretti) negli ultimi giorni non lo vedono, o si rifiutano di vederlo mettendo in pratica comportamenti del tutto contrari al buon senso (e fin lì), al senso civico e al rispetto del prossimo. Soprattutto tra i giovani, ma è una tendenza che ho osservato anche tra gli adulti sbirciando in vari gruppi Facebook, esiste una profonda ignoranza (nel vero senso del termine) che gonfia le vele di comportamenti sbagliati e, oserei dire, addirittura antisociali. Studiando questi eventi, emergono un profondo egoismo e una precisa intenzione di “fottere il mondo”, come cantano molti trapper paladini di giovani e giovanissimi, senza una reale consapevolezza che, anche ammesso in un primo momento si riesca a “fottere il mondo”, prima o poi a farne le spese non è solo il singolo che ha scherzato con il fuoco, ma l’intera comunità. Ed ecco che, se il ragazzino si ritrova di nascosto con gli amici per andare al bar a fare aperitivo, suo papà falsifica l’autocertificazione di necessità per andare a farsi un giro in Brianza con il Mercedes nuovo di pacca, d’altronde adesso che le autostrade saranno vuote, non vogliamo vedere quanto spinge?
Tra coloro che, invece, diligentemente hanno recepito le disposizioni ministeriali e le stanno rispettando emerge un sentimento ugualmente preoccupante: quello della noia. Chiariamoci, scrivo queste righe dalla mia stanza di Torino, sono solo a casa, ho annullato tutti gli impegni che avevo in programma. So cos’è la noia. Tuttavia, rimango colpito dal numero di richieste di suggerimenti che i miei contatti formulano su Instagram quotidianamente. “Ragazzi, compagnia? Scrivo io”, “Ragazzi mi consigliate qualche serie su Netflix?”, “Consigli su cose da fare a casa? No Netflix, Please.” Decine di richieste di suggerimenti, e siamo solo allo scadere del primo giorno. Persone che, durante l’anno scolastico, scrivono “Non vedo l’ora che ci siano le vacanze per buttarmi sul divano e guardare Netflix”, adesso, sono in preda al panico perché non sanno cosa fare. C’è un’incapacità generalizzata di gestire il tempo libero e la noia e c’è una difficoltà, a mio avviso, ancora più seria a gestire la solitudine. Già, la solitudine che sembrava essere scomparsa con l’avvento dei “new media”, ma che è stata, invece, solo accentuata. I ragazzi passano ore chattando su Whatsapp, mandando audio in Direct, rispondendo su Tellonym, postando foto e storie su Instagram, credono di appartenere a una comunità. Peccato che sia una comunità virtuale, che ai fuochi su Snapchat non corrispondano conversazioni davanti a un caffè, che l’audio in Direct non corrisponda, realmente alla voce di quella persona, che il like su Instagram non corrisponda, necessariamente, a un reale apprezzamento alla tua persona o al contenuto che hai condiviso.
Ecco il mondo dei giovani valdostani, ma penso che alcuni tratti siano transregionali, ai tempi del Covid-19. Un mondo spaccato in due: da un lato chi si annoia, dall’altro chi, forse proprio per sconfiggere questa noia, più o meno consapevolmente, adotta comportamenti pericolosi per l’intera comunità. E siamo solo a mercoledì.