Cecilia Strada ospite in collegamento a In-Trecci: una riflessione sul viaggio e le sue declinazioni
Nei giorni nostri, nella nostra parte del mondo, il viaggio è visto come qualcosa di piacevole e ludico, quando in realtà il tema del viaggio è alla sua origine motivo di sofferenza e fonte di disguidi. Nella seconda serata del Festival In-Trecci si è affrontato in senso lato questo tema e sotto diversi punti di vista, in occasione dell’evento “Sulle rotte del mondo“.
“Questa sera parliamo di viaggi, di migranti” ha rotto il ghiaccio il mediatore della serata Denis Falconieri, lasciando presto la parola a Cecilia Strada, figlia di Gino Strada, il fondatore di Emergency. L’ospite non è potuta giungere a Bard in presenza in quanto nei prossimi giorni partirà in missione per ResQ – People Saving People, associazione nata per salvaguardare vita e diritti di chi si trova in pericolo nel Mediterraneo.
Dalla sua nave, ormeggiata nel porto di Siracusa, Cecilia comincia: “I preparativi per la partenza di una nave sono importanti e imponenti, spiegano la complessità del soccorso in mare. Bisogna organizzare ogni dettaglio: da come distribuire il cibo fino all’organizzazione verso questa novità letale che sono le barche di ferro”.
Quest’anno le persone da soccorrere sono ancora di più rispetto agli anni precedenti e per la prima volta le partenze dalla Tunisia hanno superato quelle dalla Libia. “Le barche di ferro sono veramente letali” ribadisce Cecilia “sono ancora peggio dei gommoni. Dobbiamo costantemente chiederci cosa inventare di nuovo per fare soccorsi in sicurezza. Dagli assorbenti per le donne che salveremo ai calzini per chi arriverà senza niente ai piedi, fino a capire come tenere una distanza per non bucare i nostri gommoni durante i salvataggi: i preparativi sono lunghi faticosi. La nostra nave è stata troppo tempo in cantiere e avevamo tanta voglia di tornare in mare. Sopra queste occhiaie che ha tutto l’equipaggio abbiamo dei grandi sorrisi, anche se noi non dovremmo proprio esistere, ma finché ce ne sarà bisogno lo continueremo a fare”.
Cecilia ha raccontato di quanto ogni storia delle persone che salvano sia diversa ma drammaticamente simile. Le costanti che le legano tutte sono torture o stupri. “Succede spessissimo che le guardie obblighino il detenuto a chiamare la famiglia mettendola in vivavoce e in quel momento sparano al compagno di cella come ricatto” racconta.
A noi sembrano questioni lontane, ma dovremmo sentirle a noi vicine se pensiamo che, come ha detto secca Strada, “le tasse di noi italiani vengono usate per fare respingimenti in mare o per pagare la guardia libica che rimanda le donne agli stupri”.
Secondo lei la Valle d’Aosta può capire ancora di più rispetto alle altre regioni quello che è un confine, e quanto sia in realtà solo un costrutto nella nostra testa. “Confine non vuol dire che non si può attraversare” riprende il discorso “neanche se è naturale. Il mare è una naturale strada per la cultura. Purtroppo quello che dovrebbe essere solo poesia e gioia è diventato il più grande cimitero a cielo aperto del mondo”.
Ha portato la testimonianza della situazione di Lampedusa invece Elisa Dossi, giornalista per Rainews24, tornata proprio l’altro ieri. Negli hotspot da lei visti erano presenti 4.300 persone quando la capienza era al massimo di 600.
“Dormivano su cartoni in mezzo all’immondizia, e probabilmente questa era addirittura una situazione migliore di quelle che erano abituati a vedere” dice Elisa. “Spesso scoppiavano risse e i bambini erano privi di assistenza. Il molo si era come spartito in due corsie ed era sempre affollato di persone che stavano sotto il sole scalze”.
A Pasqua le persone approdate erano circa 40.000, già il triplo rispetto all’anno prima. Ad agosto si sono superati i 100.000 sbarchi.
In un’intervista il sindaco di Sfax, la città tunisina dalla quale partono i migranti, ha ammesso di “avere le mani legate”, perché ad avere il comando è il presidente della Tunisia. “La situazione in paese è fuori controllo, in strada le persone dormono ovunque” aveva raccontato il sindaco a Elisa. Mentre sul naufragio di Cutro dello scorso febbraio aggiunge: “Un pescatore mi diceva: ‘spero abbia perso la vita subito chi sul peschereccio stava in sottocoperta, non auguro a nessuno di resistere altrimenti’” racconta ancora provata la giornalista.
“Sono sicuramente esperienze traumatiche” è intervenuto lo psicologo Remo Carulli, che per Lonely Planet ha scritto “Psicologia del viaggiatore“. “Oggi associamo il viaggio a una vacanza, a un’esperienza piacevole, ma non è sempre stato cosi e non è così” ha precisato. “Il viaggio è prima di tutto un’esperienza di esilio e di sofferenza, poi dall’Umanesimo è diventata un’esperienza di conoscenza. Se penso ai viaggi della mia vita quelli di cui sono meno riconoscente sono quelli che non sono connotati da sofferenza”.
“Io credo che i viaggi più traumatici siano quelli più memorabili, anche se quando li vivi vorresti essere altrove” concorda il designer e autore di Lonely Planet Luigi Ferrauto – autore di “Geografia di un viaggiatore pavido” -, “il bello per me del viaggio è spostare l’asticella, anche se ripensando ai viaggi di cui parlava Cecilia non ci sarebbe bisogno di spostarla”.
“Il viaggio produce curiosità, è un contatto con l’ignoto” continua Remo “Sono convinto che viaggiare sia un’esperienza terapeutica perché ci espone al nuovo”. “Il viaggio è il palcoscenico giusto per provare le proprie paure, che io ho confermato tutte” si è accodato Luigi “ma allo stesso tempo ho confermato me stesso, approfondendo la mappa del mio io”.