Le voci della memoria: il podcast “Figlie” di Sara Poma e Sofia Borri protagonista a In-Trecci
“È un prodotto potentissimo, io l’ho ascoltato due volte e entrambe le volte ho consumato due pacchetti di fazzoletti” avvisa Silvia Savoye, direttrice di AostaSera.it, che ha moderato l’evento.
Sofia Borri, oggi formatrice e speaker, è nata in Argentina nel 1976. All’età di due anni viene sequestrata insieme alla madre Silvia, che si era opposta alla dittatura. Da quel momento non si vedranno mai più.
Sofia verrà poi riconsegnata ai nonni poco dopo il sequestro, mentre Silvia diventerà una dei 30.000 desaparecidos che non hanno fatto più ritorno a casa. Sofia ha vissuto in esilio in Svezia per tre anni dopodiché, nel 1982, è arrivata in Italia, a Milano, dove vive da allora pur restando profondamente legata al suo paese di origine.
“Vengo da una storia globale che diluisce la storia individuale” commenta Sofia “la mia famiglia era militante, e mia mamma Silvia era prevalentemente vista come una delle tante desaparecidos. Ma c’è stato un momento in cui ha iniziato a mancarmi Silvia come madre, nelle cose più comuni: qual era il suo piatto preferito, come si vestiva, chi era”.
Ed è così che ha contattato Sara Poma, curatrice di contenuti audio per Chora Media e realizzatrice di diverse serie podcast. Dal loro incontro nasce e dalle loro storie nasce il podcast “Figlie”, un viaggio audio in Argentina nella memoria personale e collettiva. “È il racconto di due persone che si incontrano e si specchiano” condensa Poma.
“Il loro è un viaggio alla ricerca della memoria e delle tracce di due madri prematuramente scomparse” riassume invece Savoye.
Un bisogno in comune
Tutto parte da una mail inviata da Sofia a Sara, “che assume un significato diverso per entrambe” anticipa Silvia. Non aveva infatti una direzione, un obiettivo preciso, non esisteva ancora l’intenzione di realizzare un podcast. L’idea di contattare Sara è venuta a Sofia dopo aver ascoltato il suo podcast “Carla, una ragazza del Novecento,” basato su un diario scritto dalla nonna di Sara. “Ascoltandolo avevo capito che era il tipo di lavoro che avrei voluto fare su mia madre Silvia” racconta Sofia.
“Io ho accolto con sorpresa la sua mail” interviene Sara “con la sorpresa della coincidenza, perché proprio in quel periodo mi stavo interrogando su un modo per affrontare il mio lutto materno, anche se era un lutto più comune: mia mamma è morta di malattia quando io ero una ragazzina”.
La podcaster si era resa conto di aver vissuto un’epifania narrando la storia della nonna Carla e di quella dell’attivista Mariasilvia Spolato, la prima persona italiana ad aver rivendicato pubblicamente la propria omosessualità, ricostruita nel podcast “Prima”. “Alla fine del racconto delle due storie di queste due donne risuonava in me l’assenza di mia mamma, mi sono resa conto che erano storie che raccontavo per mia madre”.
Per Sara la voce è “lo strumento più potente che abbiamo, mi permette di amplificare le storie e farle risuonare in qualcuno. La storia di Sofia e di sua madre Silvia è eccezionale mentre quella di me e di mia madre Marisa è più comune, quindi serviva che io fungessi da filtro in modo che le persone sentissero meno lontana nel tempo la loro storia”.
Essendo cresciuta in un luogo d’esilio, a Sofia mancava il racconto: “Sentivo che mi mancava una strada per trovare le informazioni” ammette. “È stato intenso” dice Sofia “ho scoperto cose che non avrei scoperto altrimenti”. Sofia non aveva foto con la madre se non una, in cui però aveva il volto coperto. “Era triste quella foto” ricorda “Si buttavano via i ricordi per paura, le foto potevano essere pericolose“.
Un viaggio fisico e mentale alla ricerca della Storia nella storia
Le due donne, insieme a Ilaria Orrù, collaboratrice di Sara, si sono recate personalmente in Argentina per ricostruire la storia di Silvia, nei suoi dettagli e nella sua intimità.
“È stata un’esperienza magica” asserisce Sara “stavamo cercando cose molto piccole ma che a Sofia avrebbero fatto la differenza. Non ci interessava scoprire il nome del poliziotto che l’aveva portata via di notte, ma volevamo che le persone descrivessero Silvia nella sua personalità. E la missione è stata compiuta”.
Da ragazza Sofia andava da sola in Argentina, o al più con la famiglia, per piantare nelle figlie il seme delle sue origini, ma “neanche la mia amica del cuore o le mie sorelle sono mai venute con me. Avevo un desiderio di far venire con me qualcun altro” rivela “ma avevo anche paura, paura di vedere i posti in cui mia madre era stata sequestrata”.
La madre di Sofia era una militante, per questo era stata sequestrata e finita vittima di un genocidio. “Il tema dei desaparecidos viene trattato con leggerezza in Argentina, in un clima di terrore e paura. Non si può chiedere giustizia, c’è un alone di incertezza intorno a questo tema” spiega Sofia “Noi aspettavamo che tornassero ma chissà da dove e quando. È una frattura dalla quale molti non si sono ripresi, era quasi peggio di vivere in trincea perché è una questione senza spiegazione”.
“Volevo creare un equilibrio tra le due storie: quella di Sofia e di Silvia e quella dell’Argentina del Novecento” dice ancora Sara “per farlo ho usato la lente del personale. In più mi sembrava importante creare un legame tra la storia di Italia e Argentina, quindi ho parlato con il console di quegli anni, Enrico Calamai”. Lui stesso riconosce quanto fosse una problematica “impalpabile ed evanescente“. “Quello che succedeva di notte poi spariva di giorno” racconta Calamai nel podcast “Vivevo in due mondi incompatibili, non si separava la verità dal falso“.
“Sara è stata un amplificatrice di quello che io non avevo mai pensato” conclude Sofia. “Ha immaginato mia madre viva, ha inserito la storia in una dimensione più ampia. Ha fatto uscire mia mamma dalla Silvia militante”.