Al funerale di Ida, il saluto a colei che ha trasformato il buio in luce
È appena finita la funzione religiosa quando il figlio di Ida Desandré, Roberto, sale all’altare e, inforcati gli occhiali, imbraccia la chitarra per “ciò che lei mi aveva chiesto di fare durante il suo funerale”. Nel ricordo del secondogenito 72enne (il primo figlio, Lorenzo, ha un anno in più), la madre “era una donna molto spiritosa, amava ridere, scherzare e l’ironia”. Però, in quest’occasione, anche se “non era molto contenta di parlare del suo funerale”, si era raccomandata di dire “soprattutto di quella storia dal 1924 al 1945, perché tutto il resto l’ho già raccontato io”.
Così, accompagnandosi con l’armonica a bocca, Roberto Contardo ha fatto, in oltre dieci minuti di una ballata malinconica, ma dalla forza dirompente, ora cantata, ora parlata, dalla quale sono emerse pagine non note della vita della 96enne sopravvissuta all’orrore dei lager. E la storia di questa donna, fulgido esempio di “passato usato per seminare il bene nel presente” (come aveva sottolineato, poco prima, il parroco Don Elio Vittaz nell’omelia), si è arricchita di fotogrammi tali da amplificare ulteriormente la forza d’animo mostrata una volta tornata da Ravensbruck e Bergen Belsen a Saint-Christophe, nel 1946, dove oggi pomeriggio l’hanno abbracciata idealmente in tanti.
Orfana di fatto dall’età di due anni, a seguito dell’allontanamento del padre da parte dei parenti, per evitare a lei e ai due fratelli l’etichetta infamante di figlia di un uxoricida, cresce affidata “alle non sempre amorevoli cure” degli zii, con la fretta di “diventare grande” propria di chi fugge da un dolore, senza immaginare che il futuro gliene riserverà molto altro. Conosce le durezze degli anni in cui il primo conflitto mondiale era alle spalle, ma non troppo. Epoca in cui – sono di nuovo parole del celebrante del rito – “tutti gli angoli di terreno e di campo erano coltivati per dare qualcosa alla propria famiglia”.
Ida attraversa la storia e vive l’avvento del Regime fascista e la spirale di follia crescente in cui spinge l’Italia, fino a quel “Vinceremo!” che alza nuovamente il sipario su una parentesi bellica. Il 29 luglio 1942, nel fiore dei vent’anni, sposa Giovanni, “anche se c’era la guerra che infuriava”, ma “almeno un po’ di speranza nei cuori” era presente. Lei, però, non riesce a trattenere lo sguardo su sé stessa: “nutriva una sete di verità e di giustizia” e “soffriva interiormente”, per “le mancanze che poteva vedere nelle società”. Opporsi significava cercare “di portare il suo piccolo contributo”, affinché si potesse vivere “sereni nonostante i bombardamenti”.
Nel 1944, a Resistenza avviata, la tragedia. “Dopo un attentato in città, i partigiani si ritirarono nella sua casa”, racconta il Parroco. Il mattino dopo, i militari fanno prendere direzioni diverse alla coppia: “Giovanni viene inviato nei campi di prigionia”, lei in quelli di sterminio. Anche nella vita dei due fratelli, canta Roberto, c’è a quell’epoca un treno. Non sono però sigillati in un carro bestiame, come la più piccola dei tre, ma diretti in Francia, di cui diverranno cittadini. Solo uno, Giosuè, è oggi ancora vivo ed ha 98 anni.
Dal mare inumano e mortale dei due lager in cui è reclusa, Ida riemerge il mattino del 15 aprile 1945, quando le truppe inglesi la liberano. Torna in Valle con un numero impresso sulla pelle, 9473, il codice della presunta infamia che l’industria della morte di Hitler le aveva incollato indelebilmente addosso. Anche se non ha alcuna colpa, le pesa sul cuore, come “un macigno che schiacciava quelle giornate”. Ad opporsi al male, la giovane Desandré, che nel mentre è diventata madre, ha però imparato da bambina e, ancora una volta, trasforma il buio in luce.
“Convinta che ogni persona può portare il suo mattone, per costruire la pace”, informa e forma i giovani, affinché “la triste esperienza vissuta” consenta di seminare “rispetto ed impegno a prevenire ogni premessa di guerra”. In poche parole, diventa un esempio, un testimone di come la storia dia delle lezioni, se la si sa leggere, e di come il futuro dipenda in fondo dalle azioni nel presente e dalla coscienza di ciò che è stato. Riflessioni, che affiderà anche a due libri, in cui riesce a proseguire pure dopo il 1971 quando muore il marito Giovanni, anch’egli scampato alla morte in Germania. L’ennesima difficoltà lungo un cammino, dinanzi alla quale Ida trova “la forza di ripartire, sempre con una serenità che superava il dolore che cercava di nascondere dentro”.
Il suo ruolo di messaggero della memoria le è stato riconosciuto dalle Istituzioni (che la fecero “Chevalier de l’Autonomie” e l’hanno salutata oggi con i gonfaloni di Regione e Comune) e dalle associazioni dell’impegno civile (numerose le bandiere di Anpi e delle Brigate Garibaldi). Un ruolo che era tutto nei volti commossi dei presenti, accarezzati dal sole insolito per il periodo (la luce, ancora una volta, a vincere sull’oscurità), in quel foulard tricolore poggiato sulla bara chiara e nell’armonica che Roberto ha infilato tra i fiori sul feretro, una volta finito il suo commosso omaggio. E mentre i cantori, nel cimitero sotto la piccola chiesa, intonavano un ultimo saluto, era difficile non pensare ad una parola sola: Libertà.