Il Mandorlo fiorito, un ascolto senza giudizio sul suicidio
Sono elevati i numeri dei suicidi in Valle D’Aosta. In media, negli ultimi tre anni, si è registrato più di un caso al mese e, da gennaio ad oggi, sono già sei gli interventi effettuati dalla psicologia di emergenza.
In una serata dedicata alla prevenzione del suicidio, tenutasi ieri, venerdì 12 aprile, l’associazione del Mandorlo fiorito ha utilizzato la poesia delle “7 tazze di tè” di Lu Tong, pensatore cinese della fine dell’VIII secolo d.C., come metafora di un percorso di sette tappe per raccontare i propri obiettivi e le proprie proposte.
Secondo i dati dell’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è tra le prime cause di morte a livello mondiale. In Italia, infatti, nel 2017 si sono tolte la vita 4000 persone, di cui 560 erano ragazzi tra i 15 e i 30 anni, e i numeri sono sempre più in crescita. È preoccupante il dato che riguarda i giovani e che sembra essere indotto da una crisi educativa.
L’associazione il Mandorlo fiorito nasce su iniziativa di un gruppo di sopravvissuti al gesto anticonservativo di un familiare o di un amico e ha l’intento di creare uno spazio che affronti il tema della prevenzione del suicidio partendo dal proprio vissuto, condividendo testimonianze con lo scopo di diffondere speranza.
Paola Longo Cantisano, la referente del Mandorlo fiorito ha raccontato come la poesia sia una metafora che ci invita a prenderci più pause, un rituale per darci del tempo e calmare la mente. Durante la serata le sette tazze sono state sette parole, ognuna accompagnata da un’esperienza personale o un commento per poter accogliere le persone toccate dal suicidio e promuoverne la prevenzione.
Anche per onorare la vita di chi non c’è più i sopravvissuti hanno pensato di alzare lo sguardo e di non farsi sopraffare dal dolore, ma di provare ad aiutarsi a vicenda con le proprie esperienze. Dimenticare è impossibile e non si può nemmeno voltare pagina, ma si può diventare parte attiva di un processo di cambiamento e superamento di un tabù, quello del suicidio. L’associazione si propone concretamente di fornire a chi ne ha bisogno un primo contatto e un primo ascolto senza giudizio, facendo rete sulle istituzioni e la popolazione.
L’Assenza, raccontata da Paola
“La parola assenza rimanda alla prima sensazione angosciante che mi ha occupato la mente e il cuore quando il maresciallo dei Carabinieri con molto garbo mi ha fatto sedere e mi ha comunicato la notizia che Federico ci aveva lasciati. L’assenza scava un vuoto senza fine che supera di intensità qualsiasi altra emozione, ancora più di dolore, spaesamento, amarezza, rabbia, vergogna, angoscia. Perché da sola raccoglie il significato di tutte quante come un buco nero che assorbe la luce dell’universo. E così non mi ricordo se ho pianto o se ho urlato, ma mi ricordo che ho detto a me stessa e al mondo che non ero capace di vivere senza mio figlio che il mio cuore non poteva reggere l’assenza, perché non era umanamente possibile. Le persone non sono legate al loro ultimo e drammatico momento di vita, ma sono rappresentate dalla loro vita vissuta breve o lunga che sia e quella noi dobbiamo in qualche modo onorare. Il Mandorlo fiorito nasce a marzo del 2022, è un’intuizione del cuore che ha subito messo le ali ed è andata al di là delle nostre aspettative perché è percepita come un’esigenza della collettività. Sappiamo che insieme possiamo riempire un vuoto con l’ascolto, la condivisione, il sostegno, la fiducia e l’amore. Trasformare l’assenza in presenza”.
La Solitudine
“La mia parola è solitudine, solitudine di una sorella di 14 anni in più. Sottolineo 14 anni in più perché oltre ad essere una sorella, nei suoi primi anni di vita sono stata anche un po’ mamma. La parola solitudine è la parola giusta per me e mio fratello perché l’abbiamo prima di tutto sperimentata come figli. La nostra vita l’abbiamo vissuta in simbiosi, la sua sofferenza era la mia sofferenza e viceversa. Lunghissimi interminabili giorni bui suoi diventavano per me la solitudine e l’impotenza di fronte al suo dolore mentale. Dal 21 giugno 2020 sono sola, ma sono qua per parlare di speranza perché durante il nostro percorso abbiamo anche avuto la fortuna di incontrare un gruppo di lavoro fatto di educatori, psicologo e psichiatra che c’hanno regalato la consapevolezza che ce la potevamo fare attraverso la loro competenza e accoglienza, non ci siamo più sentiti soli. La parola solitudine è stata sostituita dalla speranza. Purtroppo quel gruppo di lavoro si è sciolto, ci siamo nuovamente ritrovati nella solitudine, abbiamo provato a lottare da soli. Eravamo fragili ed è stato troppo difficile. Quell’esperienza felice però mi guida e mi spinge a lottare affinché ogni persona possa avere la sua cura. Nel mio intimo la sua assenza ancora con la sensazione di simbiosi con lui e in solitudine perché c’è anche una solitudine del dopo. La sua presenza comunque nella mia vita è stata una grande fortuna”.
Esperienza, la parola di Federico
“Io ho fatto l’esperienza da sopravvissuto di mio padre e di me stesso. Mio padre è mancato quando avevo 15 anni e una domanda che mi martellava la testa era questa: perché non ha pensato che potesse esserci una possibilità, che avrebbe potuto ricevere aiuto e curare la situazione in cui si trovava? Allora mi ero promesso che avrei fatto tesoro di quell’esperienza, solo che non è bastato. Perché quando si prova una sofferenza su di sé ci si mette quasi sui binari di un treno e la strada sembra una sola, non sembra esserci via d’uscita. Solo che questo è un inganno che ci fa la nostra mente e purtroppo non sono riuscito a cogliere questa lezione prima. Un susseguirsi di eventi tra cui la perdita del lavoro, il non riuscire a studiare e a prendere in mano la mia vita hanno fatto sì che non vedessi altra soluzione per questa sofferenza e di tentare appunto il suicidio. Per fortuna sono qui a raccontarlo e da allora ho iniziato un percorso che mi ha portato qui e mi ha portato a iniziare la guarigione. Io sono qui per dire che è possibile, che è solo un inganno quello che ci dice la nostra mente che ci dice che non c’è una via d’uscita e soffriremo nel futuro come stiamo soffrendo adesso. Questa è stata la mia lezione, quella di chiedere aiuto e di non pensare che possiamo fare tutto da soli. Ci sono stati gli amici, la famiglia, professionisti. Spero che le mie parole servono soprattutto quelle persone che stanno soffrendo e che come me vedono solo quella come soluzione del futuro perché so che con il giusto aiuto ce la si può fare”.
Cura, raccontata dallo psichiatra e psicoterapeuta Giuseppe Di Maria
“Quello che mi ha colpito è la possibilità di essere propulsori di vitalità, prevenzione e salute mentale partendo dalle esperienze. È vero anche che la nostra regione ha un tasso di suicidi particolarmente elevato. All’inizio il suicidio era vissuto come una colpa, il suicida era colpevole, e oggi siamo qui anche per superare questo”.
Lo psichiatra ha parlato di crisi suicidaria che non è affatto frutto di disturbi psichici. La maggior parte delle persone che vivono questa crisi sono persone che secondo le statistiche non erano in cura o con diagnosi gravi. Il disturbo psichico può aumentare il rischio di suicidio, ma le persone che possono trovarsi in questa situazione spesso attraversano momenti di crisi di vita e non hanno precedenti trattamenti.
“Molto spesso la crisi non è frutto di una volontà di morte, ma più frutto di una potente volontà di vita non tollerabile in quella situazione. Il desiderio di andare, di esserci, di stare bene e la sensazione dell’impossibilità di trovarla. Come se l’orizzonte si chiudesse sempre di più di fronte a queste persone. È proprio questo contrasto che rende il dolore intollerabile. È importante intervenire sui processi di costruzione della base di ognuno e quindi sui processi educativi. Come riflettere insieme ai genitori, agli insegnanti o agli allenatori. Perché questo fenomeno di nuove fragilità che sembrano indotte da una crisi educativa, richiede l’importanza di agire sui fattori di prevenzione. Credo che la vera cura sia proprio questa: la prevenzione. Agire prima, presto e insieme”.
Sollievo, l’intervento di Roberto Raia, psicologo clinico e dell’emergenza
“Ho una doppia natura, intervengo prima sull’urgenza, sull’emergenza, quando accadono i fatti e quindi anche quando c’è già stato un suicidio. Arrivo per dare aiuto a chi rimane, ai familiari. In questi momenti non è necessario dare delle risposte ma è necessario esserci. Nessun terapeuta fa il proprio lavoro per caso, ci sono persone che sono più propense all’aiuto. Chi è votato all’ aiuto porta dentro di sé e delle cicatrici e riconosce nell’altro la sofferenza. Questo diventa modo per guarire anche le proprie di cicatrici, aiutando gli altri”.
Lo psicologo ha portato una metafora che esprime al meglio il concetto del processo terapeutico, quella del Kintsugi. Si tratta di una filosofia orientale che significa letteralmente riparare con l’oro. È un’antica pratica e tecnica giapponese che consiste nel riparare oggetti in ceramica utilizzando l’oro per saldare insieme frammenti. Secondo la tecnica del Kintsugi, da una ferita è possibile ridare vita a ciò che è stato danneggiato creando una forma. Nel percorso di psicoterapia il professionista accompagna la persona nella costruzione di una nuova realtà, ricomponendo le sue parti interne e valorizzando le sofferenze, con lo scopo di far emergere rafforzare le sue risorse.
La persona sarà più consapevole delle proprie risorse, riuscirà a vedere le proprie ferite da un’altra prospettiva avendole trasformate in punti di forza. Elaborare una ferita è un processo lungo, lento, a volte scoraggiante. Richiede cure e pazienza, ma attraverso le prove e i tentativi si va avanti anche quando si ha l’impressione di essere rimasti al punto di partenza. Ad un certo punto tutto comincia diventare più chiaro e si vedono i progressi. Si guardano le cose da un altro punto di vista e ci ricordiamo che il dolore e la sofferenza sono parte della vita, imparando a sentire riconoscere queste emozioni che ci insegnano che siamo vivi. Con il passare del tempo il dolore che viene elaborato ci cambia, ma ci rende più forti e più saggi.
Cuore, la storia di Fabrizia
“Sono Fabrizia sopravvissuta di Federica, mia mamma, dal 2018. A dire il vero sono anch’io una sopravvissuta di me stessa ed è qualcosa che ricordo molto bene, una sensazione che mi ha pervasa che mi ha completamente intrappolata nel periodo scuro che ho affrontato e che ho traversato con estrema fatica, nell’estate del 2020. Era proprio il mio cuore a soffrire. Mi sentivo profondamente sola, ero convinta di essere una totale nullità e mi sentivo destinata ad essere abbandonata, ancora e ancora e ancora. La mia mamma, che per anni ho provato a salvare in tutti modi, l’avrei capito solo dopo molto tempo che non era una mia responsabilità. La relazione finita male, la situazione familiare complessa che da lì a poco avrebbe visto morire prima mia nonna e poi mia suocera a distanza di pochi giorni, le questioni legali forti che mi oscuravano la mente ghiacciavano il cuore. Una volta lo ammetto ho pensato di farla finita. Accelerare al posto di frenare la mia auto ed è lì che ho provato un senso di beatitudine e di liberazione dal fardello troppo pesante che portavo sulle mie spalle. Quando racconto quell’istante ricordo solo che una piccola distrazione mi ha distolto da quel pensiero e tutto in un attimo è finito. Da sopravissuta di mia mamma ho pensato a mia figlia, al male al cuore che avevo provato io per la morte di mia mamma e alle innumerevoli conseguenze che si erano verificate nella mia vita. Ho pensato a quanto dolore ho dovuto provare e ho dovuto subire. Per curare il mio cuore ho fatto la cosa che meglio pensavo mi potesse aiutare: ho chiesto aiuto. Lì il mio pesante fardello ha iniziato a sgretolarsi un po’ alla volta. Ho diviso il carico, l’ho affrontato una lacrima alla volta e ho conosciuto la psichiatria, quel posto che fa pensare solo ai pazzi. E nella più assoluta fragilità dopo aver toccato il fondo, ho accennato una piccola spinta verso l’alto. Da sopravvissuta di me stessa posso dire che c’è almeno una soluzione ai problemi, almeno una esiste. Spesso basta chiedere aiuto, basta comunicare di avere il cuore in frantumi e cercare un appoggio dove poter dividere il carico”.
Speranza
“Speranza è la settima delle parole che ci hanno accompagnato in questa serata”. Ha chiuso il cerchio Paola Longo Cantisano. “Il messaggio che vogliamo trasmettere noi del Mandorlo fiorito è proprio quello che la natura ci insegna, di essere attenti, di avere fede e continuare a sperare in un cambiamento al di là di ogni apparente certezza, perché anche nei momenti più bui, nella vita di ognuno si può incontrare un ramo di mandorlo in fiore, una mano tesa, un ascolto senza giudizio, un aiuto per uscire da uno stato di sofferenza o di disperazione profonda. Il suicidio, che riguardi noi stessi o chi amiamo, stabilisce un confine tra il prima il dopo, una linea che non si può cancellare e cambia radicalmente la nostra percezione della vita e della morte. Ci può annientare oppure ci costringe a ripartire dall’essenziale, da noi e dal valore della vita. C’è chi ti darà il suo braccio, ti accompagnerà per un pezzo di strada fino a quando il tuo posto non sarà più sicuro e potrai camminare da solo. Ripartire ogni giorno con piccoli propositi di vita quotidiana, perché ci sono momenti in cui non si è capaci di pensare al futuro e nemmeno al passato”.
L’evento ha fatto comprendere quanto sia importante la prevenzione, che nasce soprattutto dalla condivisione. Parlare è importante, così come non aver paura di mostrare le proprie fragilità e rivolgersi a qualcuno se si ha bisogno di aiuto. La psicoterapia cerca di togliere il giudizio, soprattutto quello personale sulle proprie fragilità per rendere le difficoltà superabili e mostrare che per tutti c’è una luce in fondo al tunnel.