Fausto Coppi, il volo dell’airone
Un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi. Un incipit memorabile, un omaggio di un fuoriclasse del giornalismo, Mario Ferretti, al fuoriclasse per antonomasia del ciclismo, Fausto Coppi, che morì il 2 gennaio 1960 a Tortona, non lontano dalla sua Castellania, che oggi ospita nella sua casa uno splendido museo.
Una morte su cui si è parecchio disquisito. Coppi e l’amico francese Raphaël Géminiani contrassero una forma severa di malaria in Alto Volta, durante una gara di campioni delle due ruote. Le cronache narrano che, tornati in Europa, Géminiani rimase in coma per otto giorni ma si salvò, grazie ad una diagnosi corretta: così non fu per Coppi, che rimase vittima della malattia.
“Un uomo solo al comando” è non solo una dedica icastica e indimenticabile, ma forse la sintesi estrema della vita di quello che all’epoca venne definito “Il Campionissimo”. Perché Coppi vinse molte gare in solitaria, infliggendo distacchi abissali ai suoi concorrenti: è celeberrima la battuta di un altro grande radiocronista, Niccolò Carosio, “Primo Fausto Coppi; in attesa del secondo classificato trasmettiamo musica da ballo”. Ma anche in ragione del fatto che si trovò sostanzialmente solo in frangenti critici. Quando perse il fratello Serse, cui era legatissimo, anch’egli corridore e vincitore di una Parigi – Roubaix, e quando si innamorò di Giulia Occhini, la “Dama Bianca” che lo attendeva all’arrivo, entrambi sposati, un reato per l’epoca.
Coppi non possedeva la robustezza e l’atleticità dello stereotipo del campione, ma vi suppliva abbondantemente con l’agilità e con capacità polmonare e cardiaca strabilianti. I tifosi italiani, eredi sempiterni dei Guelfi e dei Ghibellini, si appassionarono alla rivalità con Gino Bartali, di cui Coppi era stato gregario. Rivalità cavalcata dai media, benché sia il caso di precisare che i due nutrivano un franco e reciproco rispetto. Una foto li ritrae mentre si scambiano la borraccia: non si è mai compreso se fu Bartali a porgerla a Coppi o viceversa: un enigma che non ha fatto che accrescere, legittimamente, la loro leggenda.
Quando Eddy Merckx iniziò a vincere a ripetizione Giri d’Italia, Tour de France e classiche, fu inevitabile il paragone, per quanto i confronti tra uomini di ere diverse siano di difficile approfondimento e finiscano, spesso, per divenire argomenti da bar o da salotto dal sapore giocoso se non stucchevole. Coppi si aggiudicò cinque Giri d’Italia, due Tour de France, cinque Giri di Lombardia, tre Milano – San Remo, Parigi – Roubaix, Freccia Vallone, trionfò al Mondiale del 1953, stabilì il record dell’ora. Vinse, quindi, meno di Merckx, ma occorre considerare che la sua carriera subì un arresto per la Seconda Guerra Mondiale.
Probabilmente, risulta azzeccata la distinzione che offrì, anni fa, Gian Paolo Ormezzano: Merckx il più forte, Coppi il più grande. Era il fuoriclasse di un’Italia che usciva dalle macerie, che lavorava sodo per conseguire il proprio riscatto, come fece lui, nato garzone di salumeria. La gente lo amava e vedeva in Coppi insieme il campione inarrivabile e l’amico della porta accanto. Finché, in quel tragico 2 gennaio 1960, l’Airone chiuse improvvisamente le ali.