Concorso straordinario: lo sfogo di un’insegnante
Oggi non sarò a scuola, per la prima volta. Non lavorerò coi miei ragazzi, per la prima volta. Loro lo sanno che non ci sono scioperi o mal di schiena che tengano: io sono lì, sempre. C’ero anche il primo giorno di lockdown, con la telecamera accesa a registrare il primo video dalla loro aula, solo perché capissero che in quel caos silenzioso in cui stavamo entrando noi ci saremmo stati. Oggi invece non ci sarò, e non per libera scelta. Sopravviveranno i miei ragazzi, certo, e qualcuno sarà pure contento di non vedermi per un po’, ma io resto convinta che dopo quello che abbiamo passato, la normalità sarebbe stata la ricetta della serenità e sono certa di interpretare anche il loro pensiero se dico che anche i momenti più banali di queste sei settimane di scuola hanno avuto un gusto speciale, più consapevole da una parte e più divertito dall’altra, perché è anche di leggerezza che avevamo tutti bisogno.
Ma oggi non ci sarò in classe perché vivo in un Paese in cui sono costretta ad abbandonare il mio posto di lavoro per tutelarmi. Non posso neanche svolgerlo a distanza, perché non si può. Sono costretta a smettere di lavorare perché tra due settimane si svolgerà la mia prova del concorso straordinario per i docenti precari. Non ho scelto di stare a casa per studiare. Aspetto questo momento da 6 anni, è la mia prima occasione, non ho mai smesso un attimo di prepararmi in questa lunga attesa, ma se mi contagio, addio concorso. Non solo, se una delle mie classi finisce in quarantena (ed io con lei), addio concorso, anche da sana. Ho aspettato fino all’ultimo, fatto il conto alla rovescia dei giorni di quarantena con un piccolo margine per l’attesa dell’eventuale tampone, e soprattutto ho sperato fino all’ultimo che prevalesse il buon senso, che questo concorso che aspettiamo da anni non si svolgesse nel pieno di questa pandemia: lo aspetto da 6 anni, avrei aspettato qualche mese in più per farlo senza l’ansia del virus, senza il timore di non potermi presentare per ragioni che esulano dalla mia volontà e soprattutto ad armi pari con TUTTI i miei colleghi, non tutti meno quelli che non si potranno presentare. E ce ne sono, ce ne sono eccome, prostrati dal virus, logorati dall’attesa, traditi da una politica che parla a vanvera. Questo concorso porterà in cattedra un decimo degli insegnanti che mancano e lo farà (forse) a settembre 2021. Forse. Dico forse perché non sappiamo cosa succederà domani. E dico forse perché invece sappiamo con certezza il treno di ricorsi che inonderà i tribunali per l’urgenza di espletare questo concorso. Un’urgenza o un comodo sistema di selezione naturale. La Francia, senza tante storie, ha rimandato il suo di concorso, con un banale comunicato sul sito: “Le priorità sono quelle di preservare la salute degli studenti e di garantire l’uguaglianza di trattamento a tutti i candidati”. Poche righe, un’evidenza, due priorità che né il nostro Paese né la nostra Regione hanno messo in cima alla lista, in barba a ogni sbandieramento di autonomia.
Da settimane evito ogni contatto esterno al lavoro: niente caffè al bar, niente chiacchiere con gli amici. Lo faccio per tutelare me, la mia famiglia, i miei colleghi e i miei alunni, ma non so se tutto questo sarà abbastanza, perché a scuola il virus c’è, checché ne dica la nostra Ministra, e ci sono persino alunni che la mascherina non la portano perché hanno il certificato medico. Scoprirò nei prossimi giorni se ho fatto in tempo a proteggermi, se questa violenza che sento di aver subito sarà servita a qualcosa. Mi è stato detto che se fossi rimasta, l’avrei fatto a mio rischio e pericolo. Cari genitori, quando i vostri figli entrano più tardi a scuola o escono con dei moduli di anticipo, quando vi raccontano di aver avuto tre ore di supplenza, quando vi dicono che anche oggi è arrivato un nuovo supplente (alla faccia di ridurre l’ingresso di nuove persone nella scuola), è perché dietro ci sono anche queste storie, di insegnanti malati, quarantenati, isolati, in aspettativa obbligata. Che anche da malati, quarantenati, isolati, in aspettativa, continuano a fare quel che possono per collaborare con dirigenti e colleghi e contribuire a trovare soluzioni a problemi che sei mesi fa sapevamo che avremmo incontrato, a elaborare risposte molto pratiche a problemi a cui i decreti e le circolari non rispondono, a gonfiare di buona volontà il vuoto delle risorse. E quindi oggi abbandono il mio consueto ottimismo isterico e manifesto la mia delusione verso un Ministero cieco e una Regione pavida e dico che a scuola no, non va tutto bene.
A conclusione di questo sfogo segnalo che, nell’anno della reintroduzione ufficiale dell’educazione civica a scuola, alunni (e famiglie) avranno capito alcune lezioni che io leggo come storture:
1. Che le opportunità non sono per tutti (a oggi un insegnante malato/quarantenato/isolato equivale a un non iscritto/non preparato; domani, ma sempre solo domani, ci saranno i ricorsi. Ergo, il Covid – o il sospetto Covid – è una colpa);
2. Che per garantirsi un’opportunità, un lavoratore deve lasciare il suo posto di lavoro (e lo stipendio) perché nessun’altra soluzione è stata contemplata da chi di dovere. Aggravante: il mio lavoro è fatto di relazioni umane, di fiducia, di presenza, non solo di mansioni da svolgere;
3. Che l’innovazione tecnologica della didattica tanto decantata viaggia a compartimenti stagni: se uno studente è a casa per Covid, ha diritto alla didattica digitale integrata, mentre se uno ha l’appendicite ad oggi non ancora e la cosa sta evolvendo a macchia di leopardo tra le scuole senza un piano (quindi in questo caso il Covid è un vantaggio);
4. Che l’innovazione tecnologica della didattica tanto decantata viaggia doppiamente a compartimenti stagni: a loro tutela gli studenti possono essere messi a casa a seguire la didattica digitale integrata mentre gli insegnanti sono in classe, ma non viceversa, perché un insegnante non può insegnare da casa se la classe è a scuola (che quindi resta senza il suo insegnante);
5. Che non ci sono abbastanza insegnanti, soprattutto se si costringono a casa quelli che ci sono;
6. Che non ci sono abbastanza risorse se si pretende di fare didattica digitale integrata in classi dove c’è ancora solo la lavagna col gesso; che si impara però la cooperazione quando il prof ci mette il suo cellulare per la videocamera, un alunno il suo tablet per il microfono , un altro le foto della lavagna e un altro ancora l’hotspot per la connessione, e tutti assieme si forma una squadra di assistenza tecnico-informatica;
7. Che in questo momento la priorità dovrebbe essere la sanità (l’unica che vive davvero in urgenza), perché in sei mesi per la scuola avrebbero dovuto essere approntati piani B, C e D per ogni scenario e non si dovrebbero elemosinare risposte a problemi prevedibili e annunciati. E invece tanto, troppo, è demandato a Dirigenti, personale e insegnanti.
Secondo me ce n’è ancora almeno un’altra di stortura, ma ve la lascio trovare da soli.
Daniela Gallotti, insegnante