Lo schermo velato: sguardi sul cinema queer
Da un paio d’anni, ad Aosta, i mesi autunnali si stanno ormai consolidando come mesi del Pride, cioè giorni all’insegna di eventi culturali e informativi sulla comunità LGBTQIA+, nota anche come queer, rivolti alle persone della comunità stessa, alleate o interessate a conoscerla. Tra questi eventi ci sono, ovviamente, anche proiezioni di film e corti cinematografici, che svolgono un ruolo fondamentale nella diffusione culturale della società.
Il cinema e la televisione mainstream stanno portando sugli schermi sempre più storie e personaggi queer, rispecchiando quindi una società attuale dove sempre più persone si espongono e possono esistere al di fuori dello schema eteronormativo. Per un certo pubblico, però, la percezione è che ci siano “troppe” storie e troppi personaggi gay, come se si trattasse di “un’invasione”. È importante quindi dire e ribadire che, proprio come nella società reale, le persone LGBTQIA+ sono sempre esistite anche nei media e nei backstage, ma semplicemente venivano censurate, stereotipate e sminuite, cosa che accade ancora in molti paesi in cui semplicemente esistere può mettere a rischio la vita di una persona queer. Questa mancanza di rappresentazione nella fiction si ripercuote nella realtà, tanto che le persone queer finiscono per provare insicurezza e negazione verso loro stesse. Rende difficile sentirsi parte della società se ce ne viene presentato solo un modello in cui non si esiste nemmeno, o di cui fanno parte solo persone queer immorali o cattive destinate a una brutta fine. D’altro canto, le persone etero cis che hanno conferma della sanità e correttezza dello “stile di vita etero” possono continuare a sentirsi giustificate nel rifiutare l’esistenza o eventuali coming out di persone queer.
Il trattamento attuale della comunità LGBTQIA+ nel cinema e nelle serie tv, soprattutto nei media rivolti a un pubblico più giovane, è sempre dovuto alla credenza che le esperienze queer siano in qualche modo non adatte a un pubblico generale, rimasuglio, questo, di vecchie regole del mondo del cinema.
Un excursus nel passato
Negli anni ‘30 negli Stati Uniti si creò il cosiddetto Codice Hays (chiamato così dal nome dall’avvocato che fu incaricato di scriverlo), che redigeva una serie di principi che i media visivi dovevano seguire per evitare di diffondere “idee immorali” nel pubblico. Se infatti fino a quel momento le produzioni avevano potuto bene o male parlare e mostrare qualsiasi argomento, con il Codice Hays dovevano invece sottostare a determinati principi, quali la rappresentazione del male sconfitto dal bene e la messa al bando di crimine e immoralità. Tra le varie restrizioni si annoveravano anche le “perversioni sessuali”, di cui all’epoca faceva parte anche l’omosessualità, che spesso veniva rappresentata in maniera velata ma sempre molto stereotipata negativamente.
Da notare comunque che il Codice Hays vietava tra le tante cose anche ogni rappresentazione di nudo, uso di droghe o alcolici e di coppie interrazziali. Il contenuto queer era dunque considerato immorale e osceno, anche quando non esplicitamente pornografico, ma dagli inizi degli anni ‘60 si iniziò a lottare contro questa censura. Notabile fu il caso “One, Inc vs Olsen”, del 1958, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti decise che parlare di contenuti omosessuali faceva parte del diritto di espressione e revocò l’accusa per cui il magazine One violasse le leggi sull’oscenità in quanto rivista gay. Questo risultato fu molto importante, stabilendo quindi che parlare di omosessualità non è necessariamente osceno.
Il Codice Hays fu dismesso verso la fine degli anni ‘70 e sostituito dall’ MPA rating system, ancora usato oggi, che classifica le linee guida in base al target (ad esempio per un pubblico generale non si possono usare linguaggio volgare o espliciti riferimenti a sesso e violenza, mentre per un target di solə adultə non ci sono limitazioni al liguaggio), principalmente perché l’Hays rendeva difficile l’importazione di film esteri che erano stati ovviamente prodotti senza sottostare al Codice, ma anche per via dei vari cambiamenti che la società stava attraversando con l’avvento dell’attivismo queer moderno iniziato con i moti di Stonewall.
In Europa, molti Paesi fino agli anni ‘40 criminalizzavano ancora l’omosessualità, rendendo quindi impossibile una rappresentazione queer nei media che non fosse solo un’allusione molto vaga o una scena molto fugace. Due film tedeschi sfuggirono a questa censura prima della Seconda guerra mondiale: “Diversi dagli altri” (1919), un film muto che si opponeva al paragrafo 175, cioè l’articolo della costituzione che rendeva illegali i rapporti omosessuali tra uomini, e “Ragazze in uniforme” (1931), storia d’amore tra un’allieva e la sua insegnante.
Negli Stati Uniti, alcuni film rappresentarono in maniera velata personaggi omosessuali, come “Tea and sympathy” (1956), storia di un’amicizia tra la moglie di un rettore universitario e un giovane e colto ragazzo, non interessato alle ragazze e amante della musica classica, nel quale si poteva percepire un personaggio omosessuale. Questo viene chiamato “queer-coding”: un personaggio non viene esplicitamente definito come queer, ma la sua rappresentazione si appoggia su alcuni stereotipi e cliché per far intuire al pubblico che potrebbe esserlo e, dunque, per poter sfuggire alle censure. Questo aiutò ad esempio l’animatore gay Andreas Deja nella creazione di alcunə famosə villains come Jafar di “Aladdin”, Gaston de “La Bella e la Bestia” e Ursula de “La sirenetta”, l’ultima notoriamente ispirata dalla drag queen Divine.
Verso la modernità
Negli anni ‘60 uscirono altri film con personaggi o trame queer molto più espliciti, ma dai finali tragici, come “Quelle due” (1961) con Audrey Hepburn e Shirley MacLaine e “Victim” (1960), un film inglese realizzato quando c’era ancora una legge contro gli omosessuali, che sarebbe stata poi abolita nel 1967.
Anche in Italia si dovettero aspettare gli anni ‘60 prima di avere film con temi queer: nel film “Il bell’Antonio” (1960) c’è un protagonista queer-coded, un giovane di buona famiglia che non corrisponde l’amore della sua sposa e che non si conforma allo stereotipo del dongiovanni etero. Non si può poi non nominare “Teorema” (1968) di Pasolini, un film che fu anche pesantemente censurato per la breve relazione tra due uomini.
Dagli anni ‘80 in poi, la rappresentazione omosessuale inizia ad allontanarsi dai finali tragici, come il film americano “Cuori nel deserto”, considerato il primo film moderno a tema lesbico con lieto fine. Ci furono poi diversi film con rappresentazione transgender, ma la maggior parte presentavano personaggi trans molto ridicolizzati – vedasi “Ace Ventura, l’acchiappanimali” del 1994 – o stereotipati in maniera negativa come molestatori o assassini, come “Vestito per uccidere” del 1980. Una delle prime rappresentazioni non negative, ma con un finale molto tragico, fu “Boys don’t cry” (1999), ispirato alla storia vera dell’uomo trans Brandon Teena, violentato e ucciso; nel 2005 uscì, invece, “Transamerica”, la storia di una donna trans, Bree, che attraversa il paese per andare a conoscere il figlio.
Una fotografia del presente
La comunità non è solo composta da uomini gay, donne lesbiche o persone transgender, ma questo non appare dal cinema mainstream, dove invece le rappresentazioni di persone bisessuali, asessuali, non-binary e altre non sembrano essere una priorità. Al giorno d’oggi la rappresentazione queer è molto più presente, soprattutto nelle serie tv, ma determinate produzioni mainstream tendono comunque a nasconderla o sminuirla.
Se il bigottismo è ancora tra le motivazioni, senza dubbio una causa più imponente è il guadagno: non si vuole “offendere” una determinata fetta di pubblico meno tollerante, né si vuole rinunciare a esportare il proprio prodotto a livello mondiale, perché purtroppo ci sono ancora molti paesi in cui essere queer è considerato immorale o addirittura un crimine. C’è comunque un interesse a monetizzare questa rappresentazione, ma spesso si tende a creare personaggi di poca importanza, facilmente censurabili o tagliabili, oppure si pubblicizza poco il prodotto stesso, così da farlo fallire e poter ignorare quella parte di pubblico che l’ha apprezzata perché poco numeroso. Questo fenomeno si presenta soprattutto nei media rivolti a un pubblico più giovane, il mainstream è ancora pervaso dall’idea che far vedere allə bambinə personaggi omosessuali o transgender possa in qualche modo influenzarlə, ovviamente ignorando completamente l’esistenza delle altre persone queer facenti parte della comunità LGBTQIA+.
Se il queer-coding ha aiutato a portare personaggi queer sullo schermo animato, esso ha anche il risvolto negativo di aver rappresentato personaggi intesi come cattivi o villain, lavorando dunque su una rappresentazione queer negativa e stereotipata. Ancora negli ultimi vent’anni risulta molto difficile portare personaggi queer nell’animazione mainstream senza incontrare forti censure o cancellazioni.
In Italia, negli anni ‘90 si tendeva ancora spesso a censurare serie animate che potessero avere scene troppo violente o personaggi queer: ne sono un esempio una coppia lesbica ben consolidata in “Sailor Moon”, Sailor Urano e Sailor Nettuno, che si ritrovarono nel doppiaggio italiano a essere tradotte sfortunatamente come “cugine”; tendenza ancora molto attuale, come dimostra la polemica dell’anno scorso su “Peppa Pig” che ha osato mostrare una famiglia composta da due mamme.
Oggigiorno ci sono diverse serie animate che trattano coppie queer, ma che purtroppo non sono state molto pubblicizzate e commercializzate, per i molti motivi già citati, come ad esempio “Steven Universe” (2013), “She-Ra e le principesse guerriere” (2018) e “The Owl House” (2020).
I media sono da sempre uno specchio della nostra società, società in cui le persone LGBTQIA+ esistono, lavorano e vivono. Il cinema ha fatto passi enormi nella rappresentazione delle persone queer cercando di adattarsi ai tempi e inseguendo i risultati ottenuti dall’attivismo, ma finché ci saranno persone per le quali la semplice presenza di un personaggio gay sullo schermo risulta fastidiosa, ci sarà sempre un motivo per rendere più forte e presente questa rappresentazione.
Mirko Arieta