Denaro estorto? No, “prestiti chiesti per difficoltà economiche”

06 Novembre 2018

A processo per estorsione e truffa, accusato di essere riuscito a farsi consegnare dei soldi da una donna con cui aveva intrecciato una relazione, arrivando poi a minacciarla al momento delle sue richieste di restituzione, il 48enne barese Diego Carli ha offerto nell’udienza tenutasi oggi, martedì 6 novembre, la sua versione sui fatti, risalenti al novembre 2014. È quello il periodo in cui conobbe “all’interno del Casinò” un’imprenditrice della media Valle sulla cinquantina, con cui “ci siamo poi visti, avevamo dei rapporti, uscivamo insieme”.

L’imputato ha detto di essersi trovato in Valle, all’epoca, perché “avevo un’azienda personale”, titolare di un sub-appalto nel settore della telefonia. Alla domanda se avesse chiesto denaro alla donna (costituitasi parte civile, con l’avvocato Ascanio Donadio) ha risposto senza esitare: “sì, ero in difficoltà economiche” ed ha qualificato quelle richieste come “prestiti”. L’ammontare è stato indicato in “una 50ina di mila euro”, ottenuti “in contanti, con assegni, con ricariche” (in quest’ultimo caso, effettuate “non solo sulla mia tessera”). Per l’accusa, tuttavia, la somma sarebbe pari a circa 110mila euro, obiezione di fronte alla quale il diretto interessato ha opposto un semplice: “non mi risulta”.

Il 48enne, assistito dall’avvocato Federico Fornoni, ha quindi affermato di aver “detto delle bugie” per ottenere le cifre (alcune motivazioni avrebbero riguardato, tra l’altro, il suo stato di salute, nonché quello di un fratello), perché “avevo bisogno di soldi”. “Dovevo pagare gli operai, il materiale”, ha aggiunto, senza poi negare che ci siano stati dei litigi: “lei giustamente voleva i suoi soldi”. Tuttavia, ha respinto l’ipotesi, contestata dall’accusa, di aver alzato le mani sulla parte offesa: “mai, non ho mai sfiorato una donna. Anche perché quando veniva a casa mia, a Pont-Saint-Martin, spesso c’erano i miei dipendenti”.

Il pm Luca Ceccanti ha quindi fatto ripetere all’imputato perché avesse bisogno di quel denaro: “volevo salvare la mia azienda”, che allora contava “sei dipendenti” (ricordando solo i nomi di tre di loro). Il sottufficiale dei Carabinieri occupatosi delle indagini, sentito in precedenza, aveva però dichiarato che i soldi erano andati in acquisti di “mobili, macchine ed elettrodomestici”, circostanza tale da lasciare dubbi sull’effettiva attività professionale dell’uomo. Al riguardo, l’accusato ha ribattuto che la ditta è ancora aperta oggi e che, i lavori svolti in Valle, erano stati fatturati regolarmente.

Quanto all’sms minaccioso “se vuoi la guerra l’avrai” spedito alla donna, Carli ha ammesso di aver “scritto il messaggio”, ma “non ho mai avuto idea di fare male alla signora”. Ha altresì riconosciuto di averla minacciata di rivelare al marito della loro relazione, ma “c’era la rabbia” alla base di quelle parole. Il giudice monocratico Marco Tornatore ha quindi concluso l’esame, domandando all’imputato se sinora abbia mai restituito la cifra ottenuta. La risposta è stata un “no”, ma “oggi che lavoro, potrei dare qualcosa ogni mese. È giusto che abbia indietro qualcosa”.

Il pm Ceccanti – considerando che una delle imputazioni è proprio relativa al fatto che l’imputato avrebbe millantato un ruolo da imprenditore – ha richiesto, a quel punto, l’acquisizione, dalla ditta appaltatrice dei lavori menzionati da Carli, delle fatture che l’uomo ha sostenuto essere state emesse. Il giudice ha accolto l’istanza, delegando l’accertamento all’aliquota della Guardia di finanza della Sezione di Polizia giudiziaria della Procura. L’udienza riprenderà il 5 febbraio 2019.

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