La Cassazione annulla la sorveglianza speciale ai fratelli Vincenzo e Michele Raso

04 Giugno 2018

La Corte di Cassazione ha annullato, con una sentenza pubblicata oggi, lunedì 4 giugno, il decreto che disponeva, nei confronti dei fratelli Vincenzo (64 anni) e Michele (55) Raso, la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. La misura di prevenzione,  della durata di cinque anni e che disponeva nei confronti del secondo anche l’obbligo di dimora, era stata decisa dal Tribunale di Aosta il 23 novembre 2016, poi confermata l’11 maggio 2017 dalla Corte d’Appello di Torino. Il provvedimento era scattato nell’ambito dell’applicazione dell’amministrazione controllata, da parte dei giudici, all’impresa Edilsud dei fratelli Tropiano (terminata nel novembre 2017 e annullata dalla Suprema Corte all’inizio di quest’anno).

In particolare, era emerso che i due imprenditori si fossero rivolti ai Raso quali intermediari con gli estorsori che volevano una percentuale sulla vendita alla Regione del parcheggio pluripiano dell’ospedale Parini. Nel decreto, i giudici aostani avevano scritto: “L'intervento dei fratelli Raso non è semplicemente volto ad aiutare Tropiano Giuseppe ad individuare il gruppo criminale dal quale proviene la minaccia, ma, soprattutto, a trovare un accordo con il gruppo stesso, da ricercarsi anche qualora comprenda il pagamento di una somma di denaro, prospettata da Raso Michele come 'dovuta' secondo la comune prassi di matrice 'ndranghetista".

Da lì, il giudizio di “pericolosità qualificata” per entrambi i fratelli Raso, perché “indiziati di appartenenza ad una associazione mafiosa”, e per Michele anche di “pericolosità generica, perché indiziato di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso”. I due sorvegliati speciali hanno però presentato ricorso alla misura a loro carico e la Cassazione lo ha ritenuto fondato “con riguardo al giudizio di attualità della pericolosità”. Per i giudici, “la sussistenza della medesima risulta logicamente affermata e motivata in modo non apparente” nei decreti emessi dalle Corti di Aosta e Torino.

“Il concetto di ‘appartenenza’ ad una associazione mafiosa, – viene ricordato nella sentenza – rilevante per l'applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla ‘partecipazione’, si sostanzia in un'azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale”. Tuttavia, si legge ancora, la “Corte d'appello di Torino ha errato nel ritenere non necessaria la dimostrazione dell'attualità della pericolosità, così come ricostruita fino all'anno 2011”.

Per la Cassazione, il provvedimento impugnato risulta pertanto “affetto dall'assenza della motivazione con riguardo agli elementi di fatto da cui desumere la attuale persistenza della pericolosità”, alla luce dei quali, secondo la giurisprudenza, va verificata la validità della “presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo” ad un sodalizio mafioso. Da qui, l’accoglimento del ricorso, con annullamento del decreto che disponeva la misura ed il rinvio alla Corte d’Appello di Torino per un nuovo esame della questione.

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