Mille persone per salutare Marisa, Vivien e Nissen

18 Novembre 2018

Alle 14 di oggi, domenica 18 novembre, un’ora prima dell’inizio dei funerali, quando i fedeli dentro la chiesa dedicata a Cristo Re stanno ancora recitando il rosario, la coda di persone desiderose di dare l’ultimo saluto alle tre bare che custodiscono i corpi di Marisa Charrere, 48 anni, e dei figlioletti Vivien e Nissen (7 e 9) – che lei ha deciso di portare con sé nel viaggio senza ritorno, praticando loro delle iniezioni letali, prima di togliersi la vita – è senza fine.

A guardare quel mare di persone, facilmente un migliaio, si riconoscono ad occhio nudo i mondi nei quali si divideva l’esistenza della famiglia dilaniata dal dramma consumatosi nella casa a pochi passi da qui. Ci sono i bimbi dello sci club Drink, che aveva accolto i due piccoli per le prime gare di sci nordico, con le loro giacche blu chiaro. Gli alunni della scuola in cui due banchi sono rimasti vuoti, con fiori bianchi nelle mani. I colleghi forestali di Osvaldo Empereur, marito e padre sottoposto a un dolore da far tremare i polsi, che oggi è qui, dopo il ricovero in ospedale. I soccorritori e gli infermieri e medici di Cardiologia, che condividevano la quotidianità professionale di Marisa, presenti in massa grazie alla disponibilità degli omologhi di altri reparti, pronti a coprire i loro turni oggi.

In tanti, al peso del dolore per l’accaduto, sotto i colpi di una temperatura che con il calar del sole si fa glaciale, aggiungono quello della domanda che li assale da due giorni. Chi era davvero Marisa Charrère, la donna che avevano conosciuto come rigorosa e umana sul lavoro, oppure riservata ma semplice in paese? Era la Medea di Euripide, offesa con il suo compagno al punto da infliggergli la peggior pena immaginabile, o una persona che, messa alla prova troppe volte da un’esistenza costellata di difficoltà, ha dato una risposta definitiva, la sola sembratale possibile, ad un terreno fattosi irrimediabilmente sdrucciolevole sotto i suoi piedi?

La verità è probabilmente che, in questo come in altri casi, ragionare per schemi, per quanto risulti rassicurante agli esseri umani, porta lontano dalla verità. Ne è cosciente Don Renato Roux, parroco di Aymavilles da pochi giorni. Tant’è che per la funzione sceglie letture in cui si rispecchia la desolazione abbattutasi sul paese – il libro del profeta Michele (“sarà un tempo di angoscia, come non ce n’era mai stata”) e il Vangelo di Marco (“il sole si oscurerà, i pianeti saranno sconvolti”) – e poi, nell’omelia, parla di “uno dei momenti più tristi di questa comunità”, che rende tutti “attoniti, senza parole”, di fronte al quale si dovrebbe rispondere solo con “silenzio e preghiera”.

“Eppure, – aggiunge – mi corre il compito difficile di portare un po’ di luce in questa realtà, un po’ di speranza. Anche in questa situazione di dolore veramente infinito, incomprensibile”. Una speranza che parte dal presupposto per cui “le nostre parole, di fronte a una tragedia così grande, di fronte a queste tre bare, sono insignificanti” e che passa per un messaggio che “sembra casuale, ma non lo è”. Riguarda due statue di angeli presenti nell’edificio sacro, risale al 1975 e incrocia le famiglie oggi avvinte dal dolore. All’epoca, dopo che mani ignote le avevano rubate, “nonno Federico aveva donato alla chiesa di Aymavilles questi due angioletti”. Ecco, conclude il sacerdote, “Vivien e Nissen sono questi due angeli che ci proteggono e ci aiutano dall’alto del cielo”.

Un messaggio intriso di fede, registro simile a quello scelto, subito dopo l’“Hallelujah” di Leonard Cohen che ha fatto da tappeto alla comunione, da una cugina di Marisa Charrère, per ricordarla dall’altare. Si rivolge direttamente alla parente scomparsa, sottolineando che “la sofferenza che hai sopportato da sola, in questi giorni ha proprio stretto il cuore”. Quindi chiede a tutti “di esserci vicino, perché i momenti difficili iniziano ora”. Le tre vittime della tragedia di Crétaz Saint-Michel, adesso, “hanno degli angeli lassù che veglieranno su loro, ma hanno bisogno di qualcuno quaggiù”.

“Non restiamo soli” è il suo accorato invito, a voce rotta. “Chiedere aiuto, o piangere non è segno di debolezza”, aggiunge. “Anche Gesù ha mandato i suoi apostoli insieme, due a due. I discepoli di Emmaus erano due” e quindi occorre imparare “a camminare assieme”, “anche con delle persone vicine, che sono sole”. A costoro, “impariamo a sorridere, magari a solo dirgli un “buongiorno”.

Dopodiché, un’ultima invocazione, per nulla casuale su una vicenda che ha alzato una buriana di parole, sui media (anche nazionali), come in Valle: “Non apriamo la bocca per dire cose che fanno male”, perché “le parole fanno più male delle botte, di uno schiaffo, di una sberla”. Per cui, “teniamo per noi certe cose” e “non andiamo a pensare cos’è successo qualche giorno prima, a dare una motivazione”. Su tutto, “non giudichiamo”, giacché “solo il buon Dio, ed è buono, solo lui giudica. Non sta a noi giudicare”.

Una voce da cui emerge, più nitido che mai, lo stato d’animo delle due famiglie il cui corso è stato deviato per sempre dalla tragedia di venerdì scorso, come dopo la collisione tra due bocce sul panno di un biliardo. Una voce dopo la quale le bare, in legno chiaro quella di Marisa, bianche quelle dei bimbi, tornano sul sagrato gremito dai rappresentanti di quei mondi semplici, senza altre parole, se non l’“Eterno riposo”, seguito dal volo dei palloncini liberati dagli amichetti di Vivien e Nissen. Salgono in cielo veloci e sembrano destinati a portarsi con loro anche le tante domande di una comunità straziata. A questo punto, diventa chiaro a tutti qui, non hanno più senso.

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