‘ndrangheta, la Cassazione: replicato in Valle un modello mafioso
Nel processo Geenna con rito abbreviato, dalle regole diverse da quello con dibattimento ordinario, le acquisizioni probatorie, che non sgorgano dal contradditorio in aula, ma emergono “dagli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, hanno consentito di accertare” che in Aosta, a differenza di quanto emerso nell’altro filone processuale scaturito dalle indagini della Dda di Torino e dei Carabinieri, “era operativa, negli anni in contestazione, una organizzazione mafiosa del crimine che affonda le sue radici nella ‘ndrangheta calabrese, ubicata nei settori jonici reggini”.
Le “relazioni concrete” con la “casa madre”
Lo scrive la seconda sezione della Corte di Cassazione, nelle motivazioni alla sentenza con cui, lo scorso 20 aprile, ha reso definitive le condanne per associazione di tipo mafioso nei confronti di cinque imputati (con pene tra i 5 anni e 4 mesi e i 12 anni 7 mesi e 20 giorni di carcere). La sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Torino il 19 luglio 2021, impugnata dinanzi alla Suprema corte dai condannati, “ha in conformità a quella di primo grado, ricostruito l’attività di Bruno Nirta, dei fratelli Di Donato (Marco Fabrizio e Roberto Alex) e del Mammoliti (Francesco, ndr.), tesa ad assicurare l’operatività della propria espressione ‘locale’ radicata nella ‘ndrangheta calabrese”.
Oltre a ciò, la sentenza impugnata, assieme a quella precedente, frutto della decisione del Gup di Torino nel 2020, dà conto delle “relazioni concrete, di carattere autorizzatorio-gerarchico tra esponenti di vertice della casa madre calabrese, di San Luca ed i soggetti (Nirta e Marco Fabrizio Di Donato) protesi a colonizzare il territorio vergine subalpino”. Se ne ricava un contesto in cui, continuano i giudici, “a Bruno Nirta, così come a Marco Fabrizio Di Donato, è stato riconosciuto il ruolo apicale di capo e promotore”. Sono quindi stati dichiarati inammissibili i loro ricorsi sulla contestazione associativa, così come quelli dei condannati per la partecipazione alla “locale”, Roberto Alex Di Donato e Francesco Mammoliti.
I profili dei “partecipi”
Per il primo, sottolinea la Suprema Corte, nella sentenza di secondo grado è stato “ben evidenziato l’apporto concreto prestato dal ricorrente alla consorteria mafiosa”. “Numerosissime sono le vicende” riassunte “dalla Corte” d’Appello – scrive la Cassazione – in cui Roberto Alex Di Donato “assume, nei confronti degli associati, come pure degli estranei al sodalizio, un ruolo fattivo, efficace ed evocativo di una plurisoggettività criminale che lo guida, lo tutela e lo orienta; entità verso la quale l’agente si propone, si spende ed opera, anche per manifestarne all’esterno l’esistenza e la virulenza”.
Quanto a Francesco Mammoliti, per i giudici di Cassazione, “attivo e diretto è il ruolo svolto, in occasione della assegnazione delle postazioni nelle piazzole di sosta ai mercanti alimentari provenienti dalla Calabria, che testimonia da sé solo di una appartenenza alla consorteria”. Decisiva viene poi definita “la vicenda dello scontro con l’omonimo Domenico, espressione di altra famiglia calabrese di ‘ndrangheta. Tutte tali vicende compongono un mosaico di tessere collimanti che inducono a ritenere dimostrata, ad avviso della Corte di merito la sua affectio verso quella particolare cellula ‘locale’”.
Favoreggiamento, condanna definitiva
La Suprema Corte, per la parte d’inchiesta oltre il crimine organizzato, motiva anche la dichiarazione d’inammissibilità (con altra condanna, a sei mesi di reclusione, che diviene quindi definitiva) del ricorso depositato da Roberto Bonarelli sull’accusa di favoreggiamento personale. La tesi degli inquirenti era che avesse “avvisato” il ristoratore Antonio Raso, oggi in attesa del giudizio d’appello “bis” nel processo con rito ordinario, della presenza di microspie nella pizzeria “La Rotonda” ad Aosta.
Per la Cassazione, i giudici d’appello hanno avuto cura di “evidenziare che la prova emergente dalla ‘lettura’ delle conversazioni intercettate, per quanto euristicamente autosufficiente, è rimasta confortata dalla chiamata in reità svolta dal Raso (nell’interrogatorio di garanzia affermò di aver ricevuto la notizia da Bonarelli, ndr.), che ha confermato il dato storico della propalazione della informazione riservata, che lo favoriva nella ‘difesa’ dalle investigazioni in corso a suo carico”.
Processo “bis” a Di Donato per due imputazioni
Nelle trenta pagine di sentenza, la Suprema Corte spiega poi le ragioni di tre annullamenti di parti del verdetto d’appello, con rinvio a nuova sezione della Corte d’Appello per un nuovo giudizio, riguardanti altrettanti capi d’imputazione mossi, in accoglimento dei loro ricorsi, a Marco Fabrizio Di Donato e Salvatore Filice. Per il primo, la Cassazione “cancella” la parte di condanna relativa alla “ipotesi estorsiva consumata nel gennaio-febbraio 2016 ai danni” del titolare del ristorante “Grotta Azzurra” di Aosta. La tesi d’accusa era che Di Donato lo avesse “minacciato gravemente” al fine “di costringerlo ad affidare i lavori di ristrutturazione del locale a persone a lui vicine, in luogo di quelle liberamente già scelte dal committente”.
Se i giudici d’appello hanno affermato la responsabilità dell’imputato “affidandosi totalmente al contenuto colloquiale delle conversazioni intrattenute tra Marco Di Donato e soggetti terzi, che ne ascoltavano i racconti”, per la Corte di Cassazione non è stata tenuta in considerazione la “rilevantissima circostanza che le maestranze” incaricate “dei lavori sono esattamente le stesse cui il committente aveva ipotizzato di rivolgersi, come pure assai equivoca era l’indicazione dello studio” da individuare “quale progettista”.
Non chiaro lo scambio elettorale
L’annullamento con rinvio per Di Donato concerne anche lo scambio elettorale politico-mafioso in occasione delle elezioni comunali di Saint-Pierre del 2015, perché – scrive la seconda Sezione della Cassazione – “non è chiarito in sentenza in quale misura ed in che modo l’afflato ipotizzato tra consigliere comunale eletta (Monica Carcea, imputata per concorso esterno nel rito ordinario, ndr.) e locale indiziato di partecipazione mafiosa consenta di ritenere che – ante elezioni – si fosse realizzato lo scambio di promesse illecite sanzionato dalla norma incriminatrice, cosa questo accordo prevedesse e attraverso quali modalità mafiose (note o concretamente ipotizabili dalla candidata) si sarebbe realizzato l’aiuto elettorale”. Il comune di Saint-Pierre era stato sciolto a seguito dell’accesso antimafia seguito all’inchiesta.
Filice, accolto il ricorso sulla tentata estorsione
Quanto a Salvatore Filice, infine, l’annullamento con rinvio si riferisce all’ipotesi di estorsione aggravata tentata. I giudici di Cassazione hanno ritenuto fondato il motivo di ricorso presentato dai difensori Gianfranco Sapia ed Elena Corgnier sulla qualificazione giuridica del fatto. La vicenda è quella della “scazzottata” tra il figlio dell’imputato e il nipote del ristoratore Raso. Per la Cassazione, ciò che la Corte d’Appello afferma “in maniera del tutto assertiva”, nel pronunciarsi per la colpevolezza, è “la avvenuta dimostrazione del profilo psicologico che ha mosso l’azione dell’imputato: la ferma volontà di esigere, senza titolo giuridico alcuno, una somma di denaro (inizialmente, euro 10mila) dagli offesi, con modalità apertamente minaccciose” (anche attraverso l’esibizione di un’arma).
Richiamata la giurisprudenza “sul regolamento di confini tra la fattispecie di estorsione e quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con violenza o minaccia alle persone”, la Suprema Corte stabilisce in sentenza che nel giudizio “bis” sull’accaduto, si dovrà verificare se “Salvatore Filice agì nella convinzione di esercitare il diritto proprio (quale esercente la potestà genitoriale sul figlio minore) ad ottenere il risarcimento del danno morale e materiale subito dal figlio minore ad opera” dell’altro ragazzo. La pena inflitta all’imputato in appello (2 anni e 4 mesi di reclusione, anche per la violazione della normativa sulle armi) dovrà quindi essere rideterminata sulla base del nuovo procedimento di secondo grado.
I giudici annotano tuttavia che la vicenda, peraltro, “darà occasione alle famiglie dei giovani litiganti di confrontarsi su più livelli di ‘composizione’, giungendo a ricercare ed ottenere l’interessamento mediatorio dei referenti calabresi (di San Luca) degli odierni imputati della fattispecie associativa”. Da ciò deriva che “l’episodio (che darà luogo a trattative ed incontri ripetuti nel corso di alcuni mesi) costituisce, pertanto, anche uno dei più rilevanti ‘testimoni’ del collegamento placentare in essere tra la cosca di San Luca e la ‘locale’ valdostana”.
Assoggettamento omertoso per controllare il territorio
La Cassazione, nello sviluppo delle motivazioni, riguardo alla differenza dell’epilogo con l’altra sezione della Corte coinvolta nel caso (che ha annullato le condanne per associazione mafiosa, con rinvio in Corte d’appello, si sofferma pure sul fatto che “l’esito divergente della originariamente unitaria regiudicanda è del tutto fisiologico e non apre la stura ad un potenziale contrasto tra giudicati, dipendendo dalla variabile processuale del differente rito prescelto dagli imputati”.
Il convincimento complessivo della Cassazione sull’esistenza della ‘locale’ valdostana è che “processo svoltosi con rito abbreviato ha dunque consentito di dimostrare quanto descritto in imputazione, cioè che la plurisoggettività organizzata (ancorché a ristretta base sociale) di satelliti ‘ndranghetisti traslati in territorio valdostano (anche da più di una generazione) ha ivi replicato (dal 2014) un modello mafioso che si avvale dell’assoggettamento omertoso per controllare un determinato territorio e le attività (lecite o illecite) che in quel territorio hanno luogo”. Un territorio che, in questo caso, si chiamava Valle d’Aosta.