Quei viaggi in Calabria per affermare la ‘ndrangheta in VdA
“Ambasciate” continue ai referenti della “casa madre” e, quando la “locale” valdostana vedeva a rischio il raggiungimento dei suoi obiettivi di potere, viaggi nella provincia di Reggio Calabria dei suoi presunti componenti per “risolvere i problemi”. Documenta anche i rapporti con la terra di origine della ‘Ndrangheta l’ordinanza del Gip di Torino Silvia Salvadori, che ha fatto scattare, due giorni fa, i sedici arresti dell’“operazione Geenna”.
Si tratta di aspetti cui tutti i coinvolti mostrano di prestare massima attenzione, perché particolarmente delicati: quando il flusso di messaggi ed informazioni si interrompe l’organizzazione va in crisi, divenendo vulnerabile. In una conversazione del gennaio 2016, Marco Fabrizio Di Donato, ritenuto il capo della “locale” al centro dell’inchiesta dei Carabinieri del Gruppo Aosta, rivela infatti di un arresto in Calabria, avvenuto anche per il mancato recapito di un messaggio, di cui aveva incaricato Nicola Prettico, individuato quale partecipe del sodalizio ed anch’egli in carcere dall’altro ieri.
Di Donato interpreta quella dell’affidatario dell’“ambasciata” come una “grossa mancanza di ‘rispetto’”. Il fatto – si apprende dal provvedimento del Gip – costringe anche suo fratello Roberto Alex (altro arrestato nell’operazione) e il responsabile della “mancata trasmissione” a recarsi in Calabria per giustificarsi dell’accaduto. Circostanza che segna l’interruzione “per un lungo periodo” dei rapporti tra i due. “Da quella volta lì, – è ancora Marco Fabrizio a parlare – mio fratello non l’ha più visto… dopo tre quattro mesi… per questo mio fratello ha il dente…”.
“I mafiosi della domenica”
Il “colpevole” si sarebbe successivamente spiegato con la guida dell’organizzazione in Valle, adducendo però una motivazione ritenuta “poco plausibile e comunque non accettabile”, tanto che – in un’intercettazione agli atti – Marco Di Donato esclama: “però tu pezzo di merda non vieni a dirmelo… mandamelo a dire”. Il livore verso il sodale riguarda pure un altro episodio, nello stesso periodo. Si tratta del viaggio di Prettico a San Luca, stando alle indagini “per partecipare ad un incontro di ‘ndrangheta’”.
Marco Fabrizio Di Donato – è nell’ordinanza – si sfoga: poco prima di partire, il consigliere comunale aostano gli avrebbe detto “eh adesso che c’è l’incontro con la società”, termine che il Gip riconduce a una delle denominazioni della ‘ndrangheta. Il fatto che Nicola usi l’aereo e porti con sé l’iPhone (“violando le regole basilari di prudenza che devono essere seguite per eludere i controlli delle forze dell’ordine”) fa però sbottare il “numero 1” della “locale” alpina: “questo è un coglione pericoloso ma per lui eh!”.
Il suo interlocutore in quel dialogo non va lontano dal giudizio: “questi sai come si chiamano? I mafiosi della domenica. Questi che si fanno prendere in questo modo…”. I Carabinieri trovano il nome del consigliere ora sospeso dall’Union Valdôtaine tra gli imbarcati sul volo da Torino a Lamezia Terme del 24 gennaio 2016. Dall’analisi dei tabulati telefonici ricavano quindi che Prettico sia rimasto in Calabria per tre giorni (per la maggior parte del tempo, nella zona di Polistena e Cittanova) e che, tra l’inizio e la metà di aprile, ci sia tornato “altre due volte, a distanza di un brevissimo lasso di tempo”.
“Dobbiamo vedere per questo locale”
In un’occasione, al ritorno a Malpensa, ad attenderlo c’era Alessandro Giachino, non solo suo collega al Casinò, ma presunto “partecipe” della cellula ‘ndranghetista aostana e, per questo, arrestato nell’operazione di due giorni fa. Prettico ritorna poi, nelle carte, anche per “ambasciate” riguardanti le “trattative per cedere il ‘Prince’”, discoteca di Quart di cui aveva assunto la proprietà, “a soggetti residenti nella locride”. Ne parla, nel dicembre 2015, Marco Fabrizio Di Donato (“dobbiamo vedere per questo locale, così se lo tolgono dai piedi”) con Bruno Nirta, considerato dagli inquirenti “regista” dell’organizzazione in terra valdostana e destinatario di un’altra delle sedici misure cautelari.
La “spedizione” del messaggio viene organizzata, secondo l’ordinanza, da Marco Di Donato e Antonio Raso, “attraverso due fratelli residenti in Valle d’Aosta ma originari della locride”, che “devono scendere in Calabria il 19 gennaio successivo”. Uno degli “ambasciatori” viene fermato dai Carabinieri, per due controlli nel giro di quattro giorni, a Bovalino, elemento che riscontra la pertinenza dei piani orchestrati in Valle, ma “della trattativa per la vendita del ‘Prince’ – scrive il Gip – non si è saputo più nulla nel corso dell’indagine” ed è “pertanto verosimile che i destinatari delle ambasciate non fossero interessati al locale di Quart”.
“La barzelletta di San Luca…”
Un tentativo di estorsione ai danni di “Tonino” Raso si intravede poi, dal provvedimento, nell’ottobre 2016 e il modo di provi riparo che la “locale” trova passa sempre per il cordone ombelicale con la “casa madre” (già collaudato nei casi di episodi d’intimidazione). È il titolare della pizzeria “La Rotonda” a dire a Roberto Alex Di Donato – mentre i Carabinieri li ascoltano – “di avere saputo che passeranno dal suo locale delle persone che gli chiederanno qualcosa”. In risposta riceve: “tu digli che già sei apposto” e che la persona destinata a passare “gode di scarsa reputazione” in Calabria, tanto che “sai come la chiamano? La barzelletta di San Luca… poi dicono che gli ‘volano’ la testa”.
Per gli inquirenti, pur non essendo esplicitato il merito della richiesta, “si comprende dal tenore della conversazione trattarsi di una richiesta di denaro per la protezione dell’esercizio commerciale gestito da Raso”. Il fatto dimostrerebbe “come gli equilibri tra le diverse ‘ndrine presenti sul territorio della Valle d’Aosta non si siano ancora consolidati”, ma la reazione “netta e decisa” di “Tonino”, condivisa con Di Donato, dimostra che “il gruppo degli indagati sia solido al suo interno e stia acquisendo il predominio”.
Venti giorni dopo quel dialogo, Roberto Alex risulta su un volo per Lamezia Terme. Torna a casa la stessa sera e, due giorni dopo, si reca a “La Rotonda”. Tra le persone incontrate menziona in particolare “tale Orazio”, che viene identificato in un appartenente alla “famiglia ‘ndranghetista di Cinquefrondi” degli Ierace, e dice a Raso: “comunque là mi hanno detto che non sono più saliti che qua… pure cose nostre…”. Parole che, per il Gip Salvadori, significano non solo che “la vicenda della richiesta si sia interrotta”, ma che la stessa potesse “essere gestita autonomamente in Valle d’Aosta”. Potere di poche ore all’ombra dell’Aspromonte.