Soldi trasferiti ai Caraibi: ecco perché è caduto l’autoriciclaggio
Il denaro trasferito a Santo Domingo dalla parrucchiera Josefina Bienvenida Herrera Nunez (53 anni) e dal suo convivente Antonino Tripodi (55) – processati per aver “spostato” circa 150 mila euro dal cuore delle Alpi al paradiso caraibico, anziché usarli per onorare un debito con il fisco da 230mila euro (derivante da imposte non versate dal salone aostano della donna, dal 2000 al 2016) – veniva riscosso “nella Repubblica Dominicana da soggetti diversi” da loro due, ma è “pacifico che il denaro rimanesse di fatto nella disponibilità degli imputati, che lo reimpiegavano nell’acquisto e nella gestione di attività commerciali” e “di immobili”.
Lo si legge nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 8 gennaio, il Gup Davide Paladino ha condannato la coppia aostana a due anni di reclusione a testa per l’indebita sottrazione al pagamento di imposte, assolvendola invece, “perché il fatto non sussiste”, dalle ipotesi di autoriciclaggio ed associazione a delinquere. Il pm Luca Ceccanti aveva chiesto in aula, nel procedimento celebrato con rito abbreviato, di affermare la colpevolezza su tutta la linea, da punire con sei anni di cella ognuno. Gli imputati erano stati arrestati nel gennaio 2018, a seguito dell’inchiesta della Guardia di finanza, rimanendo ai “domiciliari” per poco meno di due mesi.
Gli “associati” non identificati
Secondo il giudice, i destinatari dei versamenti ai Caraibi “pur se sommariamente indicati, non sono mai stati puntualmente individuati, né sentiti nel corso delle indagini”. Tale mancanza “non ha permesso di accertare” se “fossero consapevoli non solo di far parte di un’associazione criminale”, ma nemmeno se “le rimesse di danaro” ricevute “provenissero dall’illecita sottrazione di risorse finanziarie destinate a far fronte ai debiti nei confronti dell’Erario”.
Spedire capitali attraverso i “money transfer”, “oltre ad essere strumento di consueto utilizzo da parte di cittadini stranieri emigrati all’estero, costituisce di per sé attività lecita” e ciò “comportava che le indagini dovessero necessariamente approfondire tale aspetto”. Tale “carenza probatoria”, per il Gup, non poteva che “condurre all’assoluzione” di Herrera Nunez e Tripodi dall’addebito di associazione a delinquere.
L’autoriciclaggio: lo “spartiacque” del 2015
Relativamente all’ipotesi di autoriciclaggio, invece, la sentenza individua anzitutto lo “spartiacque” dell’applicabilità di tale fattispecie di reato nella sua data d’introduzione nell’ordinamento italiano, avvenuta con legge nel 2014 e contestabile, quindi, per atti compiuti dal 1 gennaio 2015. Una modifica normativa recente, tanto che si trattava della “prima volta” in cui l’accusa veniva mossa in Valle.
Al riguardo – osserva il giudice Paladino – dalle risultanze processuali (ritenute “piuttosto incomplete”, per la scelta “di non effettuare indagini patrimoniali per rogatoria nello Stato caraibico”) emerge che le attività imprenditoriali impiantate a Santo Domingo “dagli imputati, così come tutti gli acquisti immobiliari” evidenziati dagli inquirenti (tra l’altro, un attico, una villa con piscina e due saloni di bellezza) “siano precedenti all’anno 2015, mentre non risultano acquisti” o altre iniziative commerciali “successivi a tale data”.
In assenza della prova che “le somme di danaro trasferite nella Repubblica dominicana” dopo il 2015 fossero state “effettivamente e concretamente impiegate” dagli imputati “nelle attività elencate” dalle norme sull’autoriciclaggio, considerando oltretutto che la parrucchiera e il suo convivente “trascorrevano lunghi periodi nella Repubblica Dominicana e che la Herrera aveva là la propria famiglia d’origine”, è “possibile ipotizzare” che gli spostamenti di capitali successivi all’anno “spartiacque” possano “essere stati destinati a scopi diversi” da quelli illeciti.
La sottrazione all’Erario? Indubbia
Pare invece “indubbio” al Gup che i trasferimenti all’estero, attraverso “strumenti di moneta elettronica”, di “fondi apparentemente destinati a soggetti diversi”, così come l’alimentazione di “carte prepagate su cui hanno effettuato prelievi altre persone, sempre residenti all’estero”, integrino, in quanto “fittizi”, “un’attività fraudolenta idonea a sottrarre dette somme” alle procedure di recupero derivanti dai debiti con lo Stato (129 le cartelle ricevute dall’attività di Herrera nel periodo contestato).
Peraltro, indicativi della finalità sottrattiva degli atti patrimoniali contestati vengono ritenuti in sentenza anche elementi quali “il frazionamento in numerose operazioni delle somme trasferite” e l’uso di mezzi come il “money transfer” e le ricariche di carte di credito (che, richiedendo l’uso del contante, non consentono “di rintracciare la provenienza del denaro”). Per questo aspetto, il giudice ha quindi deciso per la colpevolezza, non concedendo alcuna attenuante agli imputati, vista “l’assenza di alcun ravvedimento, anche mediante condotte riparatorie”, pur parziali, “del danno arrecato”.
Una condotta che, nel caso di Tripodi, all’epoca dipendente dell’Agenzia delle Entrate, “oltre a costituire una grave violazione dei doveri cui è sottoposto il pubblico dipendente, ha arrecato un forte pregiudizio all’immagine dell’ente pubblico”, visto anche “il risalto che il suo arresto ha avuto sui mezzi di informazione locale”. I due imputati erano difesi dagli avvocati Massimo Balì e Federico Mavilla. La Procura della Repubblica ha impugnato la sentenza. La vicenda continuerà quindi con un giudizio di secondo grado, in Corte d’Appello a Torino.