Tanti amici e caschi al cielo per l’ultimo saluto ad Andrea Carquille

29 Giugno 2016

Se n’è andato cavalcando il suo destriero d’acciaio, Andrea Carquille. In sella, nei trentaquattro anni di vita finiti improvvisamente domenica, aveva percorso migliaia di chilometri, come stava facendo anche quel pomeriggio, lungo la regionale di Rhêmes. Eppure, oggi – nella chiesa di Aymavilles – il dubbio che attanagliava le centinaia di persone convenute per tributargli l’ultimo saluto non era su chi, tra il centauro e quel cavallo fiammante avesse tradito l’altro, ma semplicemente "perché?".

Un interrogativo schiacciante, sotto il peso del quale più di una persona non ha resisto, abbandonando la chiesa con le lacrime che segnavano gli occhi. Eppure, era anche l’unica domanda sensata rimasta a questo punto e una risposta ha provato a darla Don Sergio Rosset, celebrante del rito funebre. Lo ha fatto durante l’omelia, immaginando a voce alta le parole che lo stesso Andrea avrebbe usato per spiegare l’accaduto ai presenti sgomenti: “tu sei lì a perdere tempo, a dire ‘andavo veloce, andavo piano’, perché noi se non troviamo qualche motivazione non siamo felici. Invece non è questo che tu devi cercare, perché la cosa più bella in questo momento è che tu viva in silenzio, sapendo che il Signore mi ha chiamato in un momento felice della mia vita”.

“Probabilmente, – ha aggiunto il sacerdote – voleva che ci fosse uno in Paradiso che girasse un po’ con la moto per togliere quella noia che qualche volta c’è tra un angioletto e l’altro. Ecco, pensiamo proprio che il Signore non fa le cose a caso e se oggi siamo qui e abbiamo lasciato chi il lavoro, chi qualcos’altro, è perché attraverso Andrea ci vuole dire qualcosa d’importante”. Qualcosa che Don Rosset ha tentato di sottolineare anche attraverso i pensieri del fratello dello scomparso, Arnaud. “Ieri – ha raccontato – gli ho chiesto ‘perché c’è scritto Cinghio e sulla bara era appoggiato un piccolo cinghialetto’? Lui mi ha detto: ‘perché era tosto, mio fratello. Non soltanto perché era più alto di me e un po’ più forzuto di me. Era proprio tosto’”.

“Quando faceva il portiere, – è proseguito il racconto, evocando l’altra grande passione del giovane scomparso, il calcio – ad un certo punto gli hanno detto: ‘no, vai a fare l’attacco’. E lui, testa bassa, è andato a fare l’attaccante, anche se poi – chissà se ho capito bene – non che fosse chissà che cosa come attaccante. Però ci è andato, con la testa bassa, come i cinghialetti. Ecco cosa ci insegna Andrea, che la vita è mettersi al servizio, così come siamo capaci, senza pretendere di essere professionisti, perché la cosa importante non è fare goal, ma essere amici”.

E di amici di “Cinghio”, oggi ad Aymavilles, ce n’erano davvero tanti, testimoniati non solo dai numerosissimi mazzi di fiori che circondavano letteralmente la bara in legno chiaro, con accanto una foto del giovane incorniciata nello stesso azzurro del cielo, ma anche dal fiume di persone che si è riversato dalla chiesa di “Cristo Re” verso il cimitero del Paese. Alcuni di loro hanno alzato il casco al passaggio del feretro, nel massimo segno di rispetto che esista per chi condivide le due ruote e il rombo del motore come stato d’animo, ancor prima che come passione. Una presenza e dei segni di stima che, per concludere con Don Rosset, restano la miglior testimonianza per Arnaud, per la mamma Adriana e per il papà Gianni “di aver avuto un figlio che era prezioso a molti”.

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