Tragedia in Valsavarenche: chi era Alessandro Bosio, il ragazzo venuto in Valle per essere guida
La montagna? Alessandro Bosio non ha mai avuto esitazioni, tanto che sul suo sito web personale lo si trova scritto a chiare lettere: “un pensiero fisso, felice, che mi portava a desiderare di vivere e lavorare tra le vette più alte d’Europa”. Un pensiero che il 38enne scomparso oggi sulla Becca Monciair ha iniziato ad accarezzare all’età di 13 anni, quando in Valle veniva ancora accompagnato dai suoi genitori.
La vita sa essere beffarda e crudele, tanto che per Alessandro tutto inizia nel luogo ove, nella tarda mattinata di oggi, tutto è finito. La consapevolezza di essere "ormai completamente innamorato di questi panorami” arriva infatti in occasione di “una splendida vacanza in Valsavarenche, insieme al mio don dell’epoca e gli amici dell’oratorio”.
E’ il momento in cui il giovane frequentatore della nostra regione si rende conto “di essere ormai completamente innamorato di questi panorami”. L’attimo che divide la sua vita tra un “prima” e un “dopo”, con lo spartiacque rappresentato dalla raggiunta consapevolezza di volersi trasferire in Valle d’Aosta, per realizzare, dopo numerose “vie normali”, ma anche itinerari più complessi, quello che ormai lui stesso chiama un sogno: diventare guida alpina, fare di una vita un mestiere.
La Lombardia lo vede partire definitivamente subito dopo il diploma di Liceo scientifico, nel 2004. Ha le idee chiare: “essere una guida non è un semplice mestiere, ma un modo per far conoscere e apprezzare le bellezze dalla montagna a tutti e in totale sicurezza”. Parole che lette oggi, alla luce di quanto è successo nell’alta Valsavarenche (per quanto l’assenza di testimoni costringa, per primi gli inquirenti, a delle ipotesi), non fanno che moltiplicare gli interrogativi in tutti coloro che hanno ricevuto la notizia, rimbalzata di smartphone in smartphone tra i professionisti della montagna, nel pomeriggio.
Bosio, per tutti, era molto attento e prudente. E’ unanime il giudizio di una guida che mai avrebbe azzardato e capace, oltretutto, di infondere molta tranquillità nei clienti. La verità, e chi va per vette lo sa bene, è che la montagna non dà giudizi: lei è il banco. Gli incidenti, quando nello zaino di chi scala c’è tutto (compresi buon senso e attenzione), non sono più di una delle carte del mazzo. La variabile che porta chiunque indossi il cappello a tesa larga ad ammettere, per quanto a denti stretti e a voce bassa per non farsi sentire da consorti e figli: “è un mestiere difficile”.
Gli uomini del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza di Entrèves, occupatisi dell’identificazione dei corpi e delle prime indagini, stimano che l’incidente si sia verificato una volta iniziata la discesa dalla Becca (la vetta è a 3544 metri), in un punto tale da non presentare particolari insidie. Assieme a Bosio c’erano due clienti olandesi, padre e figlio, rispettivamente di 57 e 20 anni. E’ probabile che qualcuno abbia incontrato delle difficoltà, magari scivolando. Il peso che si sposta improvvisamente, la cordata – in cui procedevano i tre – che non riesce a sostenerlo: la caduta, la morte.
I fotogrammi successivi rimandano ad altri racconti del genere, ma restano drammaticamente unici. I soccorsi si mettono in moto quando un altro alpinista, impegnato in zona, nota delle tracce di sangue sulla neve. Torna al rifugio Vittorio Emanuele II (da dov'era partita, di buon mattino, l'ascensione degli alpinisti vittime dell'incidente) e dà l’allarme.
In una manciata di minuti, l’intervento in elicottero del Soccorso Alpino Valdostano e del SAGF, per il recupero dei corpi, che vengono portati alla camera mortuaria di Courmayeur, a disposizione dell'autorità giudiziaria. Il momento più difficile è informare i parenti, dire a chi era in attesa a casa che non rivedrà tornare un marito ed un padre. Le autorità cercano la giovane moglie di Bosio, Eleanor Lane, ed a parlarle sarà Pietro Giglio, presidente dell'Unione Valdostana Guide di Alta Montagna, mentre per i due alpinisti stranieri viene informato il Consolato in Italia (per questo non sono ancora state rese note le loro generalità).
Non si fermava un attimo in tutto l’anno, la guida valdostana, che risiedeva con la consorte e con il figlio piccolo a Saint-Pierre. Passava dallo sci fuoripista alle cascate di ghiaccio, dal dry canyon all’arrampicata. Sul suo blog, l’ultimo post è dedicato a cinque giorni in maggio tra la Val di Rhemes e il Monte Rosa, mentre sul profilo Facebook un video dell’inizio di giugno lo mostra, con due compagni, su un “muro” verso un ghiacciaio, nel massiccio del Monte Bianco. In alto, dove resterà custodito, nel silenzio di cielo e roccia, quel pensiero fisso inseguito fin da bambino.