Enzo Bianchi e il passaggio dall’io al noi come cambiamento e approccio esistenziale
Personalità emblematica e grande comunicatore, Enzo Bianchi è un cristiano che sa farsi ascoltare da tutti. È raro trovare chi non sia stato colpito dalla forza della sua eloquenza, in Italia come all’estero.
Parole e silenzi in Enzo Bianchi hanno la stessa forza. Emblematica fu la vicenda di Eluana Englaro, quando il Priore di Bose scelse di non parlare affatto per poi scrivere sulla Stampa, dopo la morte della giovane, citando il Qohèlet: «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare».
È così anche nel monastero di Bose, che creò nel 1965 quando, in solitudine, decise di essere cristiano in modo diverso (cominciò l’8 dicembre, il giorno che finì il Concilio Vaticano II). Nella comunità è padre, fratello, maestro nelle cose minime: conoscerlo vuol dire anche vederlo nelle sue bellissime cucine, tra lo squisito vasellame plasmato dai confratelli. Mettere le mani in pasta è per lui quello che avviene nell’eucaristia: il pane è fatto di grano impastato dall’uomo, il vino è uva pigiata dall’uomo. Il fare umano s’unisce alla natura e al cielo. Bianchi è completamente immerso nella comunità e però ogni tanto si ritrae, ha sete di immensi ritiri, e allora sale sull’altura dov’è un suo abitacolo e sta solo per giorni. I fratelli gli portano da mangiare. Sul priore scende la luminosa notte d’un distacco silente.