Tra reale e surreale, tra musica e teatro. Elio canta Jannacci e colora lo Splendor
Da Milano a Milano, da Enzo a Elio. Lasciati per un attimo in un cantuccio le sue “Storie Tese” Elio, in arte Stefano Belisari, illumina e colora il Teatro Splendor di Aosta e la Saison culturelle. Illumina e colora grazie a “Ci vuole orecchio. Elio recita e canta Enzo Jannacci”, spettacolo scritto e diretto da Giorgio Gallione, già in coppia con il musicista in “Il Grigio”, l’omaggio – sempre a teatro – ad un altro grande meneghino: Giorgio Gaber.
A quasi dieci anni dalla morte, Enzo Jannacci torna in vita e torna sul palco grazie all’estro di Elio – e all’ottimo ensemble che lo accompagna – in un omaggio che va oltre la celebrazione. Che tocca la “surrealtà” delle canzoni di Jannacci, così ancorate però alla realtà, nel filo teso che passa dalla musica – morbida, jazzata, a tratti pop, con linee di samba – al gusto della risata, della battuta, della situazione improbabile e assurda.
Un surreale che si fonde con gli intermezzi recitati tra un pezzo e l’altro di Elio. Monologhi, racconti nonsense di primo acchito, ma che chiamano in causa – e lanciano – Jannacci per non mollarlo più. Come l’improbabile rapina in banca tentata da una mucca, escamotage per tirare la volata a “Faceva il palo”, una delle canzoni-icona del grande autore milanese.
Un surreale che si fonde con la vita stessa di Enzo Jannacci, l’artista prestato alla medicina. Che fu acuto cantautore, sì, ma anche raffinato musicista, compositore, cabarettista, attore. Ma anche cardiochirurgo. Parte dell’équipe – per dire – del collega noto in tutto il mondo per aver praticato il primo trapianto di cuore della storia, Christiaan Barnard.
E ieri, allo Splendor, questi mondi si sono mischiati nelle contraddizioni di una “commedia del mondo” che Elio mette in fila con la sua mimica e la sua voce inconfondibile , ma capace di fluire in quella di Jannacci. Nelle sue parole “trascinate”, nelle sue frasi a volte più narrate che cantate per davvero. Nei suoi versi, nei suoi versetti. E nei suoi “versacci”.
Il “fuoco di fila” è notevole, da storia della musica italiana: Jannacci, arrenditi!, Ci vuole orecchio, Aveva un taxi nero, L’Armando, El portava i scarp del tennis. Cento minuti tondi tondi che fanno chiedere: chi altri se non Elio poteva omaggiare così il grande Jannacci? Nessuno.
Alla fine, tra i coriandoli e la scenografia – un vero e proprio “bagno” di colore – Elio e i suoi musicisti (Alberto Tafuri al pianoforte, Martino Malacrida alla batteria, Pietro Martinelli al basso e al contrabbasso, Sophia Tomelleri al sax e Giulio Tullio al trombone) si mescolano con le immagini in bianco e nero del ricordo di Jannacci, pioniere del rock’n’roll in Italia e in pista dal lontano 1956. Quando la tv trasmetteva nel “Bel Paese” solamente da un paio d’anni.
Al momento dell’inchino, le casse dello Splendor diffondono Rido. Altra “icona” jannacciana che parla di lui come di Elio stesso. Un manifesto, una dichiarazione d’intenti: “Rido, rido di tutto e rido | Non faccio apposta e rido | Questo è il mio mestiere”. Ma c’è tempo ancora per il “bis”, autorichiesto tra le risate del pubblico in sala che riempie il teatro aostano in ogni ordine di posto.
Che non poteva essere che uno: Quando il sipario calerà. Quel sipario che nell’immaginario italiano – ed Elio lo sa bene – non è mai calato su Enzo Jannacci. Senza troppi fronzoli, perché “Di domani in domani lo spettacolo | Lo spettacolo si rinnoverà | Gente che conta e che mi guarda mi dirà ‘Un saltimbanco che ringrazia fa pietà’”.