Peste suina africana: in Valle rischio attenuato, ma la vigilanza continua
La recente ricomparsa, in alcune aree del Piemonte e della Liguria, di casi di peste suina africana (per cui il Ministero della salute ha emesso, la scorsa settimana, un’ordinanza con severe limitazioni per ben 114 comuni) ha posto la rete nazionale di monitoraggio in condizioni di particolare allerta. Il timore non è, tuttavia, legato a possibili ricadute sulla salute umana.
Virus letale per i suidi
Riccardo Orusa, direttore della struttura complessa dell’Istituto zooprofilattico di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, visti anche i tempi claustrofobici legati alla pandemia in corso, tiene a sgombrare subito il campo dai dubbi. “Si tratta di una malattia virale particolarmente grave per i cinghiali selvatici e i suini, – spiega – che non si trasmette all’uomo”.
Pertanto, “se l’essere umano si dovesse alimentare con una carne di suino mal cotta, o con una salsiccia di provenienza suide (di cinghiale, in particolare)”, che contenessero l’agente virale, non andrebbe incontro a problemi. Il virus risulta “invece letale per i suini che ne vengono colpiti ed è altamente trasmissibile, mettendo quindi a rischio gli allevamenti sia di tipo industriale, sia di tipo familiare”.
La minaccia per l’economia
Da questo dato, i timori delle autorità sanitarie, perché la pestosi minaccia economia e commercio. In questo momento, sono bloccati gli export di carni suine da Cina, Svizzera e da altri Paesi ed anche di quelle piemontesi e liguri, dove sono stati registrati dei focolai. “Se si dovesse espandere ad altre aree d’Italia, – aggiunge Orusa – darebbe un pesante contraccolpo economico. E’ una delle malattie più gravi che possano colpire la zootecnia, a qualsiasi livello”.
La Valle e i “vantaggi naturali”
In Valle d’Aosta, la malattia non è mai stata individuata e le autorità sono impiegate a garantire, “come sempre si è garantita, una situazione di vigilanza e monitoraggio del territorio”, per assicurare “l’impossibilità per questo virus di arrivare agli allevamenti suini”. Questi, nelle nostre Valli, sono in numero contenuto e di carattere prevalentemente familiare e la regione possiede “una difesa naturale nelle montagne”.
Sommata al fatto che, “per quanto si è visto nei focolai liguri e piemontesi, la malattia è circoscritta esclusivamente ai cinghiali”, animali selvatici che presentano “un ‘home range’, cioè un’area in cui si muovono, che si è fortemente ridotta nel tempo” (in ragione della loro antropizzazione), ciò contribuisce ad un “vantaggio in termini di rischio di propagazione del virus” .
Attenzione alle condotte quotidiane
Non basta, però, per dirsi definitivamente al riparo. Per spiegare perché, Orusa ricorre ad una domanda, di cui fornisce in autonomia la risposta. “E’ possibile che, come successe in Belgio, con un panino lasciato al di fuori di un cassonetto possa esserci una circolazione del virus? Sì, basta che passi un cinghiale”. Un’osservazione da cui deriva una raccomandazione basilare per l’essere umano.
“Viviamo in una natura che è nella disponibilità di tutti e, conseguentemente, dobbiamo avere un comportamento degno e rispettosi di animali, piante ed altro. – sottolinea Orusa – Lasciare un rifiuto, una derrata non consumata, contenenti parti di suide potenzialmente infette può essere un rischio di propagazione della malattia”. E’ il motivo per cui, anche prima del nuovo allarme, la vigilanza sulla peste suina africana non si è mai interrotta, nemmeno in Valle.
La vigilanza sui capi morti
“Ogni suino morto in allevamento, od ogni cinghiale che impatta con un veicolo – aggiunge il direttore – viene portato all’Istituto zooprofilattico competente per territorio, per fare un prelievo di organi, al fine di indagare la malattia”. L’esame di tipo PCR, qualora positivo, viene “inviato a Peruga al Centro nazionale delle malattie pestose che, oltre a confermare la positività, dà la genotipizzazione, cioè l’individuazione del tipo di virus”.
Attenzioni che “si sono sempre applicate da anni”, anche a fini di prevenzione, ma “l’attenzione, il senso civico” – date per conosciute le caratteristiche di propagazione della malattia – “li dobbiamo sempre tenere a mente e sempre tenere vivi nel nostro muoversi, nella nostra vita di relazione”. Il direttore Orusa, da uomo di scienza non lo aggiunge, ma sarebbe la lezione più semplice. Tuttavia, se l’uomo non avesse dato ampie dimostrazioni di renitenza all’apprendimento, non ci sarebbe bisogno di parlarne.