Covid, il rianimatore impegnato nella “maratona” della seconda ondata. “Il virus non è cambiato, il nostro atteggiamento sì”
Mi accoglie in una calda giornata di inizio novembre a casa sua. I gatti sonnecchiano sul divano, la televisione è accesa sulle cronache sportive – “come vedi mi tengo informato” ironizza – sparsi nel salotto ci sono i giochi di sua figlia. Entro nel suo quotidiano, che oggi è nuovamente compresso fra turni interminabili in ospedale. Chiacchieriamo per un’ora, seduti agli estremi di un lungo tavolo, con la porta finestre aperta e la mascherina addosso.
Stefano Santoro è uno dei rianimatori dell’Ospedale Parini di Aosta che nella primavera scorsa mi ha concesso uno spaccato dell’emergenza sanitaria da lui vissuta in prima linea, nel reparto di rianimazione. Sei mesi dopo accetta la proposta della redazione di riprendere in mano quel racconto. I dubbi non mancano, li percepisco, senza che lui li espliciti in maniera diretta. Il clima è cambiato, non solo quello meteorologico.
“Quando ci siamo sentiti ad aprile avevo detto di non tirarci su delle statue, per abbatterle il giorno dopo. Forse le canzoni e la gente a batterci le mani erano troppo, ma ora si rischia di esagerare dall’altra parte. Non mi è piaciuto essere osannato allora, e non mi piace ora essere denigrato da chi pensa che i pronto soccorsi siano vuoti o le ambulanze girino vuote per fare paura alla gente”.
Il virus non è un’invenzione, esiste e uccide, e Stefano ne è un testimone. “La gente muore per il coronavirus, perché il coronavirus in alcune sue forme e su alcuni pazienti è letale. Se la persona non avesse avuto questo virus non sarebbe morta. Aveva altre patologie? Sì, ma con quelle patologie, prima del coronavirus, la persona era viva e conduceva un’esistenza più o meno normale, mentre con il virus tutto crolla. Il covid-19 non chiede la carta d’identità, ma è ovvio che il 20enne sano ha più risorse per reagire mentre l’anziano, già debole, ne ha meno.”
La seconda ondata non è stata una sorpresa per Stefano e i suoi colleghi. “Ce lo insegna la storia”. Il reparto di rianimazione ha dovuto, come altri, riorganizzarsi. “La prima ondata ci è sembrata come uno tsunami, siamo stati travolti. Questa volta è diverso, abbiamo più la percezione che sia una lunga marea, siamo pronti ad una maratona, un Tor des Géants lungo e difficile. Noi vediamo i pazienti più gravi e sono sempre gli stessi, il virus è sempre aggressivo e se ha la possibilità crea dei danni. E’ cambiato però il nostro atteggiamento, perché in questi mesi comunque il mondo ha lavorato sulla ricerca e c’è stato un confronto internazionale per trovare le migliori strategie per combattere questo virus. Passi avanti ne sono stati fatti”.
Non è solo il virus a non essere mutato, anche i sentimenti del personale sanitario di fronte ai pazienti, lontani dai propri cari, le cui angosce e sofferenze sono affidate a delle videochiamate, sono sempre gli stessi.
“Difficile farci il callo. Purtroppo è tornato il dispiacere di non poter parlare guardando negli occhi le famiglie e di vedere queste persone da sole in ospedale affrontare questa malattia, senza la vicinanza dei propri cari”. Lo definisce “dispiacere” Stefano, ma in realtà è qualcosa di molto più profondo che nei mesi scorsi l’ha segnato.
“Ho trascorso gli ultimi cinque mesi, prima di questa seconda ondata, come una personale normale, in famiglia, andando a lavorare e dedicandomi alle attività ricreative che mi piacciono, ripartendo da zero e cercando di rimettere a posto i pezzi. Ho dovuto fare un grosso lavoro perché i danni erano stati importanti dal punto di vista emotivo. Ad aiutarmi è stata l’opportunità di incontrare, parlare e passare del tempo con le famiglie e con i pazienti che erano stati ricoverati nel mio reparto. Vedere queste persone assieme ai propri figli e nipoti mi ha fatto toccare con mano alcune delle vittorie che abbiamo ottenuto in rianimazione. E’ stato terapeutico”.
Curate alcune ferite, la testa è ora di nuovo tutta sul duro lavoro che ogni giorno lo attende in corsia. “In questo momento non c’è spazio per altro, che non siano i nostri pazienti.”