Emile Cavalet Giorsa, ricercatore in Arabia Saudita, pubblica un articolo su “Nature”

25 Agosto 2024

La scarsità di cibo, destinata ad aumentare con l’aggravarsi del cambiamento climatico, è uno dei problemi su cui si concentra molta ricerca nelle biotecnologie vegetali. A questo ambito Emile Cavalet Giorsa si è avvicinato fin dagli anni della triennale in Biotecnologie all’Università di Torino, dove si è iscritto dopo aver frequentato il Liceo Scientifico Bérard di Aosta. Frequentando corsi facoltativi sulle piante, in una triennale con un approccio invece prevalentemente medico, Emile si è appassionato alle ricerche che mirano a migliorare il patrimonio genetico delle piante vegetali, per renderle più resistenti ad agenti patogeni e a fenomeni quali la salinità e la siccità. 

Dopo un tirocinio come bioinformatico nello stesso laboratorio in cui aveva lavorato per la tesi magistrale — svolta nel corso di laurea di Biotecnologie vegetali sempre di Torino —, Emile scopre Kaust. Si tratta della King Abdullah University of Science and Technology (KAUST), un campus universitario tra i più rinomati del Medio Oriente, nato dal sogno del sovrano Abdullah Bin Abdulaziz Al Saud che, nel 2007, decise di rilanciare un’accademia statica e lontana dai riflettori mondiali.

Kaust

“Uno dei miei ex compagni di magistrale aveva visitato Kaust per un paio di settimane e ne era tornato entusiasta”, racconta Emile. “Visto che generalmente è difficile ottenere una borsa di dottorato, mentre Kaust ha un sacco di infrastrutture e di opportunità, ho fatto domanda e, essendomi trovato bene con il mio supervisor fin dal primo colloquio, ho lasciato perdere le altre ipotesi che avevo preso in considerazione”. 

Arrivato in Arabia Saudita nell’agosto del 2021, alcuni mesi dopo l’inizio del dottorato, a causa della pandemia, Emile si sposta dalla ricerca sulla pianta del nocciolo, che lo aveva visto impegnato fino a quel momento, al grano. Il suo gruppo di ricerca, infatti, si occupa di individuare i geni che conferiscono resistenza a determinate malattie del grano, in particolare alla ruggine del grano. 

Si sviluppa così la collaborazione tra un altro gruppo di ricerca e quello di Emile, nell’ambito del consorzio OWWC (Open Wild Wheat Consortium), da cui nasce l’articolo pubblicato il 14 agosto su Nature, una delle più antiche e importanti riviste scientifiche esistenti. 

“L’articolo nasce da un massiccio lavoro di sequenziamento del wild wheat, un antenato selvatico del grano tenero, e dalle analisi che ne sono derivate. Al consorzio hanno contribuito gruppi di ricerca da tutto il mondo, con l’obiettivo di generare conoscenza di cui tutti i ricercatori possano fruire. È infatti molto dispendioso sequenziare il genoma delle piante: quello del grano è cinque volte quello umano e quello di questa pianta selvatica è il doppio. Nella ricerca sulle piante, poi, ci sono meno fondi che in quella umana: questo tipo di analisi è importante per permettere a tutti i ricercatori del mondo di possedere questi dati”. 

Emile Cavalet Giorsa

Il sequenziamento di queste particolari piante, inoltre, è stato utile per dimostrare il potenziale dei parenti selvatici del grano nel miglioramento delle colture: il grano tenero moderno mostra infatti una minore diversità genetica, causata anche dalla domesticazione, mentre i parenti selvatici del grano rappresentano serbatoi genetici e ospitano diversità e alleli benefici che non sono stati incorporati nel grano tenero.

“Ci sono state indicate le piante da sequenziare per la presenza di geni di resistenza, in particolare alla ruggine del grano. L’idea è di cercare di capire quali sono i geni responsabili di queste caratteristiche (come la resistenza alle malattie, alla siccità o alla salinità) per poterli trasportare dalla pianta selvatica al grano moderno. In questo modo si ridurrebbe, ad esempio, la quantità di acqua per le colture o l’uso di fungicidi e di antiparassitari”. 

Dopo tre anni di lavoro riassunti nell’articolo su Nature, Emile si prepara a scrivere la tesi di dottorato, che intende discutere l’estate prossima. “Poi penso di rimanere ancora un po’ qui a Kaust: la mia ragazza è colombiana e finirà dopo di me il dottorato. Dopo cercheremo insieme dei posti di ricerca. Mi piacerebbe tornare in Europa e soprattutto in Italia: ne sento la mancanza”. 

Nel frattempo, Emile si gode l’ambiente lussuoso e internazionale del campus arabico. “È una vera e propria bolla in mezzo al deserto, fornita di ogni comodità e chiusa rispetto all’esterno. Quello che è più interessante è il carattere internazionale: nel mio gruppo ci sono persone che provengono da ogni continente e quasi sempre da nazionalità diverse”. 

Ma quello che le disponibilità finanziarie arabiche consentono è, soprattutto, un respiro più ampio nella ricerca: “Di solito si propongono bandi di ricerca su progetti che si sa già che funzioneranno. Qui invece ci si può permettere anche di investire in progetti ad alto rischio, che però possono portare a qualcosa di molto interessante. Adesso, ad esempio, stiamo sequenziando grani particolari e non troppo studiati, per cercare di capire meglio l’evoluzione del grano: si tratta di un’analisi di interesse generale che non ha le ricadute pratiche immediate che ci si aspetta normalmente in un bando di ricerca”. 

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