Ettore Gex, da “passeur” durante la guerra ad albergatore. Una vita nella “Repubblica di Planaval”
Fiero e un po’ scorbutico, a immagine e somiglianza di quella frazione, piccola, ma fiera anch’essa, sulla strada per Valgrisenche. Ettore Gex, 90 anni e un cognome che in Valle d’Aosta ha fatto la storia, è rimasto uno degli ultimi abitanti di Planaval a poter raccontare la quotidianità del passato.
C’è stato un periodo in cui Planaval era diventata il passaggio prediletto da chi, in fuga dai fascisti, cercava di varcare il confine passando dalle montagne che separano la Valgrisenche dalla Francia. Ad accompagnare queste persone anche un giovanissimo 13 enne classe ’31: “Era una questione di passaparola. La gente che voleva passare il confine e andare in Francia sapeva di noi, sapeva che aiutavamo chi scappava guidandoli nella notte. I gruppi solitamente erano composti da un massimo di 8 persone più 2 o 3 guide locali. Lo facevamo per soldi. Qui le attività principali erano bestiame e agricoltura, ovviamente un’attività del genere, che per noi era tutto sommato naturale, ma che era molto redditizia, significava poter portare a casa del denaro per aiutare le nostre famiglie”.
Inizia così l’avventura di Ettore Gex, passeur sulle montagne impervie che raggiungeva a piedi, in estate, insieme ad altri valdostani, accompagnando chi scappava: “La strada più difficile, ma anche la meno pericolosa era quella che da qui portava diretti sul Ruitor, strada lunga, dove incontravamo sì i nevai, ma non i fascisti – scherza con il sorriso un po’ beffardo di chi ora racconta tutto come se fosse stata una passeggiata -; perché in realtà l’altra via era quella del Col du Mont. Quella via lì era molto meno impervia, ma per arrivarci bisognava passare Valgrisa e lì c’erano loro, i fascisti, quindi cercavamo di essere il più discreti possibili”.
Un racconto fatto di partenze di notte, di letti preparati per coloro che chiedevano il passaggio, di viaggi che si ripetevano anche la stessa settimana: “Paura? Mai. Per noi era naturale camminare in montagna. Lassù era tutto calmo, tutto tranquillo, noi sapevamo che stavamo camminando sulle nostre montagne. Ci muoveva la voglia di avere dei soldi nostri, di poterne portare a casa, di sentirci utili e grandi, nonostante fossimo ancora dei ragazzi. Eravamo una bella banda, non abbiamo mai pensato che potesse essere pericoloso. E poi i fascisti non venivano a cercarci così in alto, l’unico rischio era beccarli a Valgrisa. Inoltre, i gruppi erano sempre composti da noi giovani, coloro che aiutavamo a fuggire e una persona più grande, di Planaval, che era un po’ il riferimento e apriva letteralmente la strada, Quando ti rendi conto che portare la gente fino al confine con la Francia è un lavoro, lo fai e non ti chiedi nulla. Non ti chiedi se sia pericoloso o altro, sai che stai aiutando la tua famiglia e va bene così”.
Di quei viaggi Ettore ne ha fatti tanti, sempre in estate, per 2 anni, fino alla fine della guerra e alla disfatta dei fascisti. Rimasto orfano di madre da giovane, aiuta il padre a Planaval costruendo il celebre hotel Paramont, di cui sarà gestore fino al 2007, tra restauri e rifacimenti, ma soprattutto attraversando epoche di cambiamenti del turismo e della ricettività: “Abbiamo costruito l’hotel nel ’47, l’apertura è avvenuta nel ’50 e da lì di cambiamenti ne ho visti tanti: ricordo che i primi turisti erano tutti delle grandi città, arrivavano i genovesi, i torinesi, che potevano spendere e stare in villeggiatura. All’epoca c’era un bagno per piano, la gente faceva la fila per usarlo, ma erano i tempi. Da quegli anni ho visto Planaval cambiare e svuotarsi, ma l’hotel ha sempre avuto successo, perché qui, ora, la gente arriva in elicottero davanti alla struttura: l’heliski è il nuovo turismo in grado di portare gente che spende qui da noi”.
E mentre racconta del nuovo turismo gli brillano gli occhi: “Dove ora atterra l’elicottero una volta c’era un giovane ragazzo che passava le sue giornate d’estate a leggere. Veniva in hotel a mangiare pranzo con la famiglia, che d’estate si trasferiva quassù a Planaval; noi ragazzi gli urlavamo di venire con noi nei campi, di venire a divertirsi, ma lui era sempre pieno di libri e studiava, studiava, studiava. Sono sicuro che Corrado avrebbe fatto molta strada, più di quanta non ne abbia già fatta così”.
Il ricordo di Corrado Gex lo emoziona, mentre lo racconta mostra una sua foto appesa in salotto, è una figura che per Planaval è centrale, nonostante non abbia mai abitato veramente qui. E, accanto a quella foto con un verso di una poesia di Corrado in calce, ci sono altri pezzi di vita, come il matrimonio con la moglie Ivonne che, complice, gli lancia ripetute frecciatine, come se avessero ancora 20 anni in quel bar di Arvier dove lei lavorava e lui è andato a cercarla per portarla via con sé e condividere vita, hotel e memorie.
Come si racconta Planaval, Ettore ammette di non saperlo, nonostante sia cosciente di essere rimasto l’ultimo a poterlo fare, o uno degli ultimi che comunque abiti tuttora in questo villaggio che si distende per caso in una vallata impervia e stretta e che si apre solo sulla famosa diga: “Non so esattamente quando qui la gente abbia iniziato ad andare via. Dopo il periodo della guerra sono arrivati i muratori per i lavori della diga, poi il turismo e poi tutti giù in città, dove è più comodo vivere. Quello che sicuramente posso dire è che è sempre stata una Repubblica Indipendente – ride complice con la moglie -, la famosa Repubblica di Planaval!”.