Kabul – Roma andata e ritorno: la storia di un esule afghano diventato medico italiano
“Ritornare a casa, nella mia terra di origine, dopo 23 anni di esilio forzato è stato drammatico: ho trovato tutto distrutto, dal punto di vista infrastrutturale, culturale, economico, sociale”. E’ ripartita così la seconda, o forse la terza vita di Arif Oryakhail, nato e cresciuto in Afghanistan, ma costretto a girare il mondo per salvarsi la pelle.
La sua storia, raccontata quasi sottovoce in una biblioteca regionale purtroppo semi deserta, ha aperto ieri sera un ciclo di conferenze organizzate dal Consiglio regionale per condividere tematiche di grande attualità. In questo caso, la serata era dedicata alle esperienze di medici operanti in zone di guerra.
Da studente universitario Arif Oryakhail ha assistito all’invasione sovietica e poi, da giovane medico espatriato in Pakistan, ha lavorato per anni in un campo profughi. “Mi occupavo di diagnosticare la tubercolosi che si espandeva a macchia d’olio nei campi degli sfollati – ha spiegato il medico – soprattutto al confine col mio paese, mentre infuriava la guerra”. Nel frattempo, è stato tra i fondatori di una scuola per bambine e ha dato il suo contributo a un progetto per il controllo delle nascite. Poi però, nel 1989, braccato dai mujaheddin, si è rifugiato in Italia insieme alla sua famiglia, ottenendo l’asilo politico.
“L’idea era di trovar lavoro in Germania o in Gran Bretagna – ha continuato Oryakhail – mentre in Italia ero solo di passaggio. Alla fine però mi sono fermato qui da voi: dopo aver trascorso una vita ad aiutare i profughi, il rifugiato ero diventato io”. Dopo grandi sacrifici e numerosi esami integrativi riesce a farsi riconoscere la laurea, torna a fare il medico e studiando si specializza, per poi trovare un lavoro all’Ospedale Gemelli della capitale.
Fino a quando la cooperazione italiana non gli propone di tornare a Kabul, per guidare un ospedale e coordinare altri progetti d’intervento sanitario: chi meglio di un medico specializzato che parla l’italiano, l’afghano e l’inglese, che conosce perfettamente l’ambiente e il territorio, può ricoprire questo ruolo?
“Per me – ha spiegato così la sua scelta – è stato come pagare un debito. In Afghanistan da ragazzo avevo potuto studiare gratis, con i fondi pubblici. Dovevo restituire ciò che mi era stato dato”. Ora è esperto di cooperazione nel settore sanitario, collabora con il Consiglio italiano per i rifugiati e con il Ministero agli affari esteri. La sua attività è incentrata in particolare sulla programmazione emergenziale e sanitaria per le popolazioni a rischio, specialmente per il settore materno – infantile e donne ustionate. “La sanità pubblica è in leggera ripresa – aggiunge, dati alla mano – il 75% della popolazione ha accesso alle strutture sanitarie pubbliche, la mortalità infantile è calata del 22% negli ultimi 5 anni e sempre nello stesso periodo, il tasso di vaccinazione è salito dal 13% al 45%”.
Purtroppo però, i numeri delle persone che attualmente lavorano nel settore sono ancora insufficienti a coprire il fabbisogno della popolazione. “L’Afghanistan dispone in questo momento di circa 1500 unità di personale medico pubblico, che dovrebbero coprire un totale di oltre 30 milioni di abitanti – spiega Oryakhail – Sembra poco, ma è un primo passo in avanti rispetto al nulla che ha caratterizzato lo scorso decennio: il problema non è soltanto legato alla quantità, ma anche alla qualità del personale”. E lancia un appello: “Il mio paese si sta lentamente riprendendo, ma c’è bisogno di formazione: sono la dimostrazione vivente che chi viene a formarsi all’estero, non appena ne ha la possibilità, ritorna nel suo paese. Anche quando tornare, comporta dei rischi”.