Poche parole, ma un grande amore per la montagna: Hône ha salutato Sandro Dublanc
Non era da social network, Sandro Dublanc. In un’epoca di sovraesposizione generalizzata, non è semplice imbattersi in una sua immagine. “Schivo, umile e sempre disponibile” lo ha definito il presidente dei Maestri di sci valdostani, Beppe Cuc. Un giudizio a cui nel pomeriggio di oggi, lunedì 17 aprile, nel borgo in cui è stretta la chiesa di San Giorgio ad Hône, nella moltitudine dei convenuti per l’ultimo saluto al 43enne deceduto nella valanga della Val di Rhêmes tanti si sono associati.
Un apprezzamento che restituisce la cifra di una vita semplice, fatta di poche parole, ma non d’invisibilità alla comunità. Un’esistenza scandita dalle passioni, quella di Dublanc, anzi da una passione. La testimoniavano, oltre ai ricordi di chi cercava di vincere la commozione, le giubbe rosse dei maestri di sci e le divise di fustagno e velluto delle guide alpine, che hanno accompagnato il feretro, sovrastato da un cuscino di fiori chiari e circondato dai gagliardetti delle società e delle scuole di tutta la regione.
“Chi ha avuto la fortuna di conoscerti non può non ricordare che il tuo periodo nella vita terrena è stato fatto di impegno”, ha detto Francesco Rao, ispettore regionale dei maestri di sci, ricordando il collega al termine del funerale. Prima per la scuola di sci di Champorcher, diretta per anni dal 43enne, “incarico che ti era stato affidato per il tuo essere un signore, senza mai far pesare il tempo che dedicavi”.
Poi, la scelta di entrare nella “famiglia” delle guide alpine, passando per la “porta” del 39° corso di idoneità, iter che si sarebbe completato con i moduli come quello che ha unito in un destino inimmaginabile il 44enne e i compagni Elia Meta e Lorenzo Holzknecth, accompagnati dall’istruttore Matteo Giglio, unico sopravvissuto al distacco. Malgrado lo smarrimento unanime, “ci chiediamo dove sei adesso – ha aggiunto Rao – e chissà quante persone coinvolgerai con la tua passione per la montagna”.
Don Paolo Quattrone, nell’omelia della funzione, è partito proprio dallo sgomento collettivo di fronte a situazioni del genere. “Alla morte non c’è risposta. Non esiste una applicazione che può dirci perché una persona muore a 90 anni e una a 44”, ha detto. Per poi ritrarre Dublanc come “persona seria, meticolosa”, che “quando accompagnava qualcuno c’erano solo le persone che accompagnava: era un po’ come un pastore”.
Arrivati in vetta alla “montagna dell’aldilà” – è stato il prosieguo del ragionamento del sacerdote – Dio, raffigurato da Don Quattrone come “la guida che non ci porta in un precipizio, ma passo dopo passo ci porta verso la luce”, ci chiederà “se abbiamo dato espressione a quello che siamo”, perché “la missione è tirare fuori ciò che di bello abbiamo dentro”.
“Sandro sicuramente lo ha fatto, nella sua semplicità, con i suoi limiti e con i suoi pregi. Ha vissuto le sue passioni, un po’ con fatica a volte”, ha aggiunto il celebrante. Certo, “poi c’è il dolore di chi rimane” e “questa sicuramente è una cosa pesante”. Però, “un regalo che si può fare a lui, se lo avete conosciuto da vicino, è pensare a qualcosa di bello che vi ha insegnato. Non con le sue parole, ma con il suo stile, con l’esempio. E’ una eredità molto bella”.
Un’eredità che resterà come ancora cui aggrapparsi in primis alla madre Paola, al padre Livio e alla sorella Laura, coscienti – da giovedì scorso, purtroppo, più di molti altri – che, per riprendere ancora le parole di Don Quattrone, “di fronte alla morte, di fronte a certe morti, si perdono le parole” e che, in casi del genere, “le parole umane non servono a niente”. Anche se la terapia migliore per il peso degli interrogativi non passa, almeno non per tutti e non in ogni caso, per il silenzio.