L’automobilismo e la Formula 1 piangono Patrick Tambay, il pilota gentiluomo
L’automobilismo, non solo la Formula 1, piange Patrick Tambay, che se n’è andato a settantatré anni dopo una lunga e penosa malattia. Un commiato in punta di piedi, come nel carattere di un pilota che non fatichiamo a definire gentiluomo: la sua scomparsa ha suscitato il cordoglio dell’intero mondo delle quattro ruote. Forse, al di là dell’indubbio talento, proprio per la gentilezza, il garbo, la misura che è sempre stata la cifra del campione francese.
Aveva iniziato nella Can-Am, la celebre categoria d’oltreoceano, con il team di Carl Haas (nessuna parentela con il Gene Haas dei giorni nostri), centrando il primo titolo; insieme a lui, un collega che presto diventerà un amico e al quale sarà legato da un destino ineffabile, Gilles Villeneuve. A fine anni settanta del secolo scorso, l’esordio in Formula 1, prima con Surtees e poi con Ensign, con la quale Tambay aveva notevolmente impressionato, nonostante la mediocrità della vettura. Gli si aprirono le porte della McLaren, che, però, in quegli anni, non azzeccò la monoposto.
Tornato in Can-Am, vinse il secondo titolo, sempre con la Scuderia di Carl Haas, a bordo della Lola T530. In seguito, ancora Formula 1, portando a punti a Long Beach una Theodore poco competitiva. Stava, Patrick, per mettersi il cuore in pace rispetto alla carriera nella massima Formula, quando, a seguito della morte di Gilles Villeneuve a Zolder, inaspettatamente Enzo Ferrari gli diede un sedile. E il pilota francese non tradì le attese, il Drake aveva visto giusto anche stavolta.
Vinse il Gran Premio di Germania e si lanciò nel Mondiale. La Ferrari del 1982 era di gran lunga la vettura migliore, ma quella stagione costituì un vero annus horribilis per Maranello. Prima la morte di Villeneuve, poi, proprio nelle prove della gara tedesca, il terribile incidente di Didier Pironi, infine un infortunio durante una seduta di fisioterapia che stroncò la rimonta di Tambay. L’anno successivo, il trionfo a Imola, nel senso letterale del termine: Tambay vinse e fu portato dal popolo ferrarista sul podio.
Grazie anche ai punti conquistati dal transalpino, la Ferrari si aggiudicò i trofei Costruttori per due anni di fila. Ciononostante, nel 1984, il Commendatore gli preferì Michele Alboreto, astro nascente per il quale abbandonò la promessa che aveva fatto a se stesso, dopo la morte di Luigi Musso e le conseguenti feroci polemiche che ne nacquero, di non ingaggiare più, a parte rarissime eccezioni, piloti italiani.
Tambay concluse la sua storia in Formula 1 con la Beatrice Lola, mentore il solito Carl Haas. Prima del definitivo addio alle corse, provò l’esperienza dell’Endurance, al volante della performante Jaguar di Tom Walkinshaw. Era un personaggio gentile, dicevamo, Patrick Tambay, ed era una gentilezza non certo di facciata. Esprimeva equilibrio e serenità: la sua filosofia coniugava impegno e una dose ragionata di fatalismo, un mix che pochi sono in grado di vantare. L’automobilismo ha perso un uomo grande.