Le Mans 2023, la Ferrari entra nella leggenda
A Le Mans si scrive la storia, anzi la Storia, quella con la “S” maiuscola. Ma ieri si è scritta la leggenda. Erano passati pochi secondi dallo scadere delle 24 Ore, quando Alessandro Pier Guidi tagliava il traguardo portando alla vittoria la Ferrari 499 P. I suoi compagni di avventura, che con lui si erano alternati alla guida, Antonio Giovinazzi e James Calado, tradivano ai box un’espressione a metà tra l’incredulo e l’estasiato.
Tormento ed estasi, effettivamente, questo si attendeva dalla Sarthe 2023. La Toyota era favorita piuttosto nettamente, in virtù dell’esperienza acquisita negli ultimi sette anni e delle vittorie mietute piuttosto agevolmente. La Casa di Maranello tornava nel Mondiale Endurance dopo cinquant’anni esatti – secondo posto di Arturo Merzario e Carlos Pace nel 1973 con la 312PB – e preconizzare un periodo più o meno lungo di rodaggio appariva del tutto ragionevole.
In apertura di stagione, la 499 P aveva già colto indubitabili soddisfazioni, ma non tali da far prevedere razionalmente il trionfo a Le Mans, notoriamente una gara durissima e imprevedibile che nel recente passato ha assunto toni anche rocamboleschi, che subì la stessa Toyota, quando, nel 2016, si fermò a quattro minuti dalla fine. Vincere a Le Mans vale gloria imperitura, vale una carriera, proietta direttamente nell’olimpo dell’automobilismo sportivo. Tormento ed estasi, ma pure razionalità e cuore.
A dispetto dei pronostici sfavorevoli, la Ferrari, con i piloti, i meccanici e tutta la squadra, nessuno escluso, ha compiuto il capolavoro di coniugare due concetti, anzi due stati d’animo, sublimandoli in un moto dello spirito. L’unico brivido a cinque ore dalla fine, quando dopo un pit-stop di routine, la Ferrari numero 51 non voleva saperne di ripartire. Sessanta secondi interminabili, a trattenere il fiato, in apnea, prima di rivederla in moto e tirare il più classico dei sospiri di sollievo.
In questi casi, si dice che la vittoria è ancora più bella, perché l’imprevisto, concluso a buon fine, ne ha elevato il sapore, ma andate a raccontarlo agli uomini in rosso, che in quel momento hanno rischiato di perdere – forse l’hanno proprio perso – qualche anno di vita. Antonio Giovinazzi, Alessandro Pier Guidi, James Calado, tre diversi modi di interpretare la gara e soprattutto temperamenti, approcci, in definitiva storie di vita, diversi.
Giovinazzi è il cuore, quello che la Formula Uno ha rimbalzato, e che oggi si gusta la più sontuosa delle rivincite: in lui, tensioni mai sopite e amarezze profonde sfumano nel mare delle bandiere del Cavallino. Pier Guidi, pluricampione dell’Endurance nella GT, è la ragione, il sangue freddo che pratica da sempre e che mai come ieri si è rivelato utile, nel predetto inconveniente al pit-stop e in una escursione nella sabbia. A Pier Guidi assomiglia Calado, un altro pilota che non perde mai la lucidità.
E così, dopo cinquantotto anni, un prototipo di Maranello è nuovamente sul gradino più alto del podio e i suiveurs francesi non possono che omaggiare la Ferrarì. Nel 1965, si erano imposti Jochen Rindt e Masten Gregory con la 250 LM iscritta dal North American Racing Team (NART). Fu addirittura una tripletta: secondi Pierre Dumay–Gustave Gosselin, terzi Willy Mairesse-“Beurlys”, sulla 275 GTB.
Con un giallo, ingrediente sapido di quella edizione. Vinsero, in realtà, in tre. Durante la notte, la nebbia consigliò a Gregory di non rischiare, era fortemente miope. Rindt non si trovava e, quindi, salì in macchina Ed Hugus, statunitense pilota di riserva. Hugus guidò benissimo e diede il suo significativo contributo. Sparirà, appunto, come un fantasma e solo dopo parecchi anni il mistero sarà risolto. Una lunga assenza, l’Endurance come un lontano ricordo di tempi andati, quando le gare di durata sfidavano la Formula Uno per interesse e prestigio. Giovinazzi, Pier Guidi, Calado: per loro, l’ingresso diretto nella leggenda.