L’estetica delle bugie
Ci manca la voce, come in quei sogni lucidi nei quali urlare ci fa sembrare muti, ci manca urlare perché abbiamo perso la voce e guadagnato l’atroce, quell’atroce che ormai è diventato abitudine, pane quotidiano. Nemmeno viene quotato tanto è affamato, tanto è sopravvalutato, l’atroce che vogliamo lontano ma contemporaneamente sul divano, il marito perfetto per tua figlia, lo stesso che per due prostitute abbandona la famiglia. Insomma ci siamo cascati tutti, che fossero fedi o promesse, il soggetto dell’illusione ci ha intrappolati come volpi con l’uva, col fiato sulle vetrine, col Natale disilluso ormai da tempo, a desiderare le banche, le donne, e le robe degli altri. Il desiderio che supera il talento, semmai ce ne fosse uno, quasi a parafrasare Boston George. Ci è concesso perché le nostre vite gravitano su quelle degli altri e l’uniforme è lo schermo che guardiamo, al quale domandiamo, ma soprattutto al quale ci offriamo, come agnelli sacrificali e sacrificati.
Ci manca il rispetto del tempo, quel tempo che sappiamo affrontare ma non sappiamo descrivere, se non perché lo misuriamo con le decisioni sbagliate, con le perdite e con le presunzioni travestite da consapevolezza. Quel tempo che per dieci secondi ti permette di scriverne, lo stesso che ti fa pesare le parole alla fine di una relazione, o che ti fa agire da stolto, facendoti maledire quel momento in cui hai deciso di abbandonarti alla fiducia. Ma cosa vuoi che ne sappia la natura? E’ rimasta l’ultima a concedergli un ballo, mentre noi cerchiamo di confinarlo, ordinarlo e persino annientarlo.
Qualche giorno fa sono stato cieco di fronte al tempo, distratto dal desiderio e dall’euforia, mi sono fidato della scelta degli altri, ma questa volta non si trattava del bicchiere della staffa o della divisione del conto, questa volta il prezzo da pagare sarebbe stato troppo alto per le mie finanze. Ci sono persone delle quali mi fido quando vado in montagna, persone con le quali potrei tranquillamente convivere, amici veri e sinceri, poco importa se ci si vede una volta all’anno o sette, mi ci affido come a buon barista, so cosa berrò e so che sarà di mio gradimento. E poi ci sono gli imprevisti e gli imprevedibili, come quelli che ordinano prima di te e lasci andare perchè le scorte di sicuro non finiranno proprio quella sera. Ma purtroppo, o per fortuna, la montagna non è il bancone di un bar, e allora capita che la scelta venga offuscata dalla troppa presenza, e così anziché il solito bicchiere ordini con la fretta addosso, e si sa quanto sia cattiva consigliera.
Essere testimone di una valanga è stato terribile: la decelerazione dell’umore repentina, la voce silenziosa della montagna che andava in frantumi, qualcosa di incontrollabile che stava accadendo proprio sotto ai nostri occhi, qualcosa che ormai non avremmo più potuto evitare. Stava succedendo, e noi eravamo lì, nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il finale è stato tutt’altro che tragico, il respiro era meno affannato e il sole continuava a scaldarci, la voce non ci mancava più, il tempo si era dilatato e ci portava buone notizie. Eravamo di nuovo insieme, le birre hanno fatto il resto, il pensiero della morte si era finalmente allontanato.