Lettera aperta ai disperati

27 Marzo 2020

(Parole scritte tra il 25 e il 26 di marzo 2020)

25 di marzo e mezzanotte e trentacinque.

Numeri e lettere nella stessa frase non vanno troppo d’accordo, sta di fatto che prima scambiavo messaggi temporanei con una persona che non posso definire amica perchè la conosco da troppo poco. Estremista? No, realista, la conosco da troppo poco, è un dato di fatto e la fine del nostro “dialogo” è stata questa:

– il tempo è prezioso (io)

– meglio non pensarci troppo ora (lei)

– e per me che sono una persona egoista è quasi tutto (io)

Ovviamente nell’egoismo pensare di scrivere mentre si fuma un sigaro diventa piuttosto elevato, esigenza e perfezionismo, un altro campionato.

Con la scrittura di quella frase sono approdato a Lazzaro Felice, che all’inizio mi sembrava un salto nel vuoto ma poi quelle immagini reali, tra un pastis e un tiro di pipa, hanno spiegato le ali.

Quelle immagini reali hanno spiegato le ali.

E una volta dentro quel film è difficile uscirne, le sequenze ti rimangono dentro come una frase di George Best, ma soprattutto tu rimani dentro di loro, come se avessero bisogno di una certezza, di una riscossa. Lazzaro felice è un film bellissimo, estetica in tutte le sue declinazioni, esigenza e perfezionismo, un altro campionato.

Bello lo scorrere del tempo eh? Questa era la fine della mia giornata, una culla pensata dal figlio, non dal genitore, loro hanno un altro ruolo, un’altra finestra, qualcosa che noi figli possiamo solo guardare da lontano mentre alle loro spalle c’è il tramonto più bello che abbiate mai visto. I genitori hanno quell’aura lì, che finchè ci stai vicino non te ne accorgi ma appena loro si allontanano, cazzo ha le dimensioni di un quasar e ci rimani, come una lepre mentre attraversa la strada, con quella faccia da scemo che solo Guy Ritchie è riuscito a cogliere.

E sai quando te ne accorgi? Quando è troppo tardi, perchè in queste vite non abbiamo tempo di fermarci e pensare, tutto scorre ci dicono. E siamo felici. Cazzo se siamo felici, la vita va vissuta in ogni secondo che le appartiene. Vero, verissimo.

Poi arriva il buttafuori che ti chiede perchè stai urlando ad alta voce la tua euforia, lo guardi e gli scoppi a ridere in faccia, se va bene, se va male gli vomiti addosso una serata sicuramente migliore di quelle attuali.

Il buttafuori è la morte, nel caso non l’aveste capito.

E tutti prima o poi avranno a che fare con Lei. A me è successo poco più di tre anni fa, a Federica e Andrea è successo ieri mattina, durante quella che la storia definirà come “la più grande disgrazia dopo la seconda guerra mondiale”. A loro è successo ieri, come un terremoto silenzioso. Qualcosa che più o meno tutti abbiamo sottovalutato, qualcosa che ancora in troppi, ahimè, sottovalutano, che tanto è solo un’influenza, che muoiono solo i vecchi o quelli già malati, che tanto è colpa dei cinesi e basta cantare dal balcone che tutto passa, che tanto ne usciremo più forti per ridere con gli amici, per ricominciare a mangiare nei ristoranti con le stelle, che tanto le stelle, quelle mica ci giudicano. E invece porca di quella puttana sarebbe il caso di tirarlo quel cazzo di freno a mano, almeno una volta, per sfruttare l’occasione di dipingere una curva come faceva il buon Gilles, anche senza una ruota ma val la pena provarci a smetterla di pensare in maniera superflua e occasionale, abbiamo l’occasione, andiamo oltre, abbiamo la possibilità, andiamo insieme. Abbiamo, o avremo, una coscienza più ricca dopo questa pausa, cerchiamo di investirla nel migliore dei modi, ce lo dobbiamo ma soprattutto glielo dobbiamo.

“Dice un poeta arabo che la felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa in cui tornare; non è davanti ma dietro; tornare non andare.”

Ciao Roccia, ciao Ettore

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