Cancelli con i simboli “nazi”: perché integrano la propaganda di idee razziste

29 Ottobre 2024

“L’esistenza dei cancelli con il pannello raffigurante l’aquila riconducibile a quella del Terzo Reich e gli altri due pannelli raffiguranti due triangoli, simboli evocanti le origini dei prigionieri ristretti nei campi di concentramento, non è meramente statica o evocativa” e “non solo per l’acclarata e incontestata esposizione dei detti simboli sulla pubblica via”.

E’ il perno del ragionamento che ha portato la prima sezione della Corte di Cassazione a condannare, lo scorso 4 luglio, il 60enne Fabrizio Fournier di Saint-Vincent a 4mila euro di multa per il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. L’imputato era stato già ritenuto colpevole nei precedenti gradi di giudizio ed aveva impugnato il verdetto della Corte d’appello di Torino.

La sanzione inflittagli è però stata ridotta a 4mila euro (da 5mila) per il parziale annullamento della sentenza di secondo grado, nella parte in cui affermava la responsabilità di Fournier per condotte negazioniste della Shoah consistite nell’invio a più persone di messaggi WhatsApp con link a video mirati a smentire lo sterminio. La responsabilità dell’imputato è quindi relativa all’apposizione sui cancelli della sua abitazione a Saint-Vincent di simboli ricondotti dagli inquirenti al regime nazista e alla divulgazione su Facebook di due video volti a smentire l’Olocausto.

Il concetto di propaganda

Nelle motivazioni della sentenza, depositate di recente, i giudici della Suprema corte partono dal concetto di propaganda, così come enunciato dalla giurisprudenza in materia, vale a dire caratterizzato per “la diffusività delle idee presso un numero indeterminato di persone e una concreta idoneità di tale condotta a trovare consensi nel pubblico”. Il passo successivo dei magistrati è chiedersi se l’apposizione dei simboli sui cancelli risponda a tale enunciazione.

In proposito, la Cassazione osserva che l’installazione era avvenuta “circa sei mesi prima della pubblicazione dell’articolo di stampa”, nel settembre 2018, che ha innescato le indagini della Digos di Aosta, culminate nel sequestro delle cancellate nel gennaio 2019. Dai testimoni sentiti nel processo, si ricava che “le fotografie dei cancelli erano rimbalzate” sul social network Twitter, “suscitando, proprio per questo, un certo dibattito in paese ed estremo clamore mediatico”.

La questione anche in Municipio

Tanto che l’allora presidente del Consiglio comunale, Paolo Ciambi, visti personalmente i simboli e svolta una ricerca documentale sul significato “aveva inviato al sindaco di Saint-Vincent una e-mail, sollecitando iniziative da parte della Giunta comunale”. “E’ evidente, quindi – si legge in sentenza – la concreta diffusione derivata dall’esposizione dei simboli sui cancelli nell’abitazione dell’imputato, di tal che l’idoneità diffusiva e propagandistica si è rivelata concretamente apprezzabile”. Insomma, l’opposto della condotta “statica” sostenuta dalla difesa dell’imputato, per la quale Fournier (che si era detto anche appassionato di esoterismo) si sarebbe limitato alla mera installazione.

Il significato dei simboli

Quanto all’univocità del contenuto dei pannelli esposti, l’“approfondita istruttoria” svolta dà conto “con ragionamento immune da illogicità manifesta e scevro da vizi di ogni tipo, che si trattava dell’aquila riconducibile a quella usata, come emblema, dal partito nazionalsocialista tedesco” (con la sola differenza di non avere tra gli artigli la corona di alloro che cinge una svastica, ma un serpente che si morde la coda, un uroboro), così “come i due triangoli sono descritti nei provvedimenti di merito come simboli utilizzati dai nazisti per identificare e catalogare i prigionieri ristretti nei campi di concentramento”.

I messaggi Whatsapp non propagandistici

Tornando al concetto di propaganda, dall’invio dei messaggi Whatsapp che invitavano a condividere idee negazioniste ed esaltavano Adolf Hitler per la Suprema Corte non emerge che ciò, “in relazione alle modalità della comunicazione e al numero dei destinatari, nonché avvenuta attraverso scambi di messaggistica privata, abbia avuto quella potenzialità divulgativa e propagandistica, tale da raggiungere un numero indeterminato di soggetti o, comunque, quantitativamente apprezzabile”.

La riduzione della pena

Da qui, l’affermazione della colpevolezza per il reato contestato, relativamente alle cancellate  e alla pubblicazione su Facebook di due video negazionisti dell’Olocausto, con riduzione della pena, per l’annullamento senza rinvio (“perché il fatto non sussiste”) della parte di sentenza d’appello sui messaggi Whatsapp.

Sono rimasti uguali i risarcimenti alle parti civili costituitesi nel processo: 20mila euro alla comunità ebraica di Torino, 10mila euro alla Regione Valle d’Aosta e 5mila euro al Comitato provinciale Valle d’Aosta dell’Anpi. La sentenza diventa così definitiva per Fournier, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, subordinato al risarcimento del danno alle parti civili.

L’evoluzione normativa

Il reato applicato in questa vicenda, come ricorda la Cassazione, è il frutto di un’evoluzione legislativa iniziata nel 1975 con la “legge Reale”, che ha introdotto una fattispecie autonoma per sanzionare la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale od etnico. Successivamente, la “legge Mancino”, nel 1993, ha ricompreso nel perimetro del reato anche le discriminazioni di carattere religioso, introducendo pure l’aggravante del reato commesso con finalità di discriminazione per razza, etnia, nazionalità e religione. Nel 2006, è stata quindi sostituita alla precedente condotta di diffusione quella di propaganda, nonché all’incitamento l’istigazione alla commissione di atti di discriminazione.

Cancelli con simboli “nazi”, la Cassazione condanna l’imputato

5 luglio 2024 – Ore 12.14

cancello posto sotto sequestro a Saint-Vincent

Dopo il Tribunale di Aosta e la Corte d’Appello di Torino, anche per la Corte di Cassazione l’apposizione sui cancelli di un’abitazione a Saint-Vincent di simboli ricondotti dagli inquirenti al regime nazista integra il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. La sentenza, sul ricorso proposto da Fabrizio Fournier, il 60enne di Saint-Vincent già condannato nei precedenti due gradi di giudizio e proprietario delle cancellate al centro del giudizio, è arrivata oggi, venerdì 5 luglio. L’udienza si è tenuta ieri, a Roma.

I giudici hanno operato una riduzione della pena: la sanzione inflitta all’imputato è passata a 4mila euro (in passato furono 5mila). E’ l’effetto di un parziale annullamento della sentenza di secondo grado, nella parte in cui affermava la responsabilità di Fournier per condotte negazioniste della Shoah consistite nell’invio a più persone di messaggi WhatsApp con link a video mirati a smentire lo sterminio. Per la Suprema Corte, il resto del verdetto è legittimo e diventa così definitivo. In aula, il sostituto pg della Cassazione aveva chiesto la conferma della condanna.

Restano uguali i risarcimenti che l’imputato dovrà versare alle parti civili costituitesi nel processo: 20mila euro alla comunità ebraica di Torino (con l’avvocato Tommaso Levi, che aveva depositato una querela sui fatti), 10mila alla Regione Valle d’Aosta (con l’avvocatura interna) e 5mila euro al Comitato provinciale Valle d’Aosta dell’Anpi (assistita dall’avvocato Ascanio Donadio). A carico di Fournier, assistito dal legale Enrico Pelillo di Bergamo, anche il rimborso delle spese processuali, per un importo superiore ai 7mila euro. Il processo era iniziato ad Aosta il 10 dicembre 2020.

Cancelli con simboli “nazi”, condanna anche in appello

22 Novembre 2023 – Ore 15.37

cancello posto sotto sequestro a saint vincent – Foto Simone Fortuna

Anche in secondo grado il processo sull’apposizione, sui cancelli di un’abitazione a Saint-Vincent, di simboli che le indagini hanno ricondotto al regime nazista finisce con una condanna. All’imputato Fabrizio Fournier, la Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza di primo grado: 5mila euro di sanzione per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa.

La decisione dei giudici è arrivata nel primo pomeriggio di mercoledì 22 novembre . Il processo nel capoluogo piemontese si era aperto lo scorso 11 luglio, quando il sostituto procuratore generale aveva invocato il riconoscimento, da parte della Corte, della colpevolezza dell’imputato, ribadendo la pena inflittagli nel 2021 al Tribunale di Aosta. Permangono così, per Fournier, che attraverso l’avvocato Enrico Pelillo di Bergamo aveva impugnato la sentenza di primo grado, anche i versamenti nei confronti delle parti civili nel processo.

Il processo di primo grado

Il 7 luglio 2021, al Tribunale di Aosta, oltre alla sanzione da 5mila euro il giudice monocratico Maurizio D’Abrusco aveva stabilito anche il risarcimento, da parte dell’imputato, dei danni morali alle parti civili costituitesi nel giudizio, quantificati in 20mila euro per la comunità ebraica di Torino (che, assistita dall’avvocato Tommaso Levi, aveva depositato una querela sui fatti), 10mila euro alla Regione Valle d’Aosta (rappresentata dal capo dell’avvocatura interna, il legale Riccardo Jans) e 5mila euro al Comitato provinciale Valle d’Aosta dell’Anpi (assistita dall’avvocato Ascanio Donadio), oltre al rimborso delle rispettive spese processuali.

L’imputato Fabrizio Fournier (a destra), in primo piano l’avvocato Pelillo.

Le indagini

Il pm Francesco Pizzato, nella precedente udienza del processo, aveva chiesto di condannare Fournier a 3 mesi di carcere. Le indagini, sviluppate dalla Digos della Questura di Aosta a partire dal 2018, avevano visto inizialmente il sequestro dei cancelli, sui quali il proprietario dello stabile aveva posto l’aquila e i triangoli, che per la Procura erano quelli utilizzati dal Terzo Reich, rispettivamente, in una sua effige e per la “classificazione” dei prigionieri nei campi di sterminio. Dopodiché, attraverso perquisizioni ed atti d’indagine successivi, gli inquirenti avevano contestato all’uomo ulteriori condotte volte a negare la Shoah.

Tra queste, la pubblicazione di una foto su Facebook in cui Fournier (noto come “Nazi” tra i suoi amici e insofferente ad essere nato nel giorno della memoria, secondo le risultanze degli accertamenti) era ritratto “mentre effettua il saluto romano in luogo pubblico”, nonché la diffusione (con l’invio a più persone tramite WhatsApp) di video di Robert Faurisson, studioso francese di cui Fournier condivideva i clip, mirati a smentire lo sterminio, con argomenti del tipo “le camere a gas sono delle ‘bufale’ servite per far passare per ‘mostri’ persone che non lo sono state per niente, come il grande Adolf Hitler”.

Le udienze

Il processo, iniziato il 10 dicembre 2020, ha visto sfilare in aula una decina di testimoni citati dalle parti. Alcuni di loro avevano collocato le conversazioni intercettate dalla Polizia (in cui non mancavano i “Viva il Duce” e “noi non siamo di destra… siamo fascisti”) in interlocuzioni goliardiche con l’imputato (“ci interfacciamo così”, ha detto un testimone). Per parte sua, il diretto interessato, difeso dagli avvocati Enrico Pelillo di Bergamo e Danilo Pastore di Ivrea, nella fase iniziale dell’inchiesta aveva allontanato l’ipotesi nazista, giustificando i simboli con la sua passione per l’esoterismo e alcuni filosofi tedeschi.

Le reazioni delle parti

L’accusa sosteneva che l’insieme di episodi finiti nei capi d’imputazione travalicasse la libera manifestazione del pensiero, sconfinando nell’istigazione (anche per il fatto che i cancelli si affacciassero su una strada regionale, a percorrenza sostenuta) e nella propaganda. La sentenza del 2021, per l’avvocato Levi, fissa, in particolare attraverso un’aggravante riconosciuta dal giudice, un principio ritenuto un “punto di partenza” per la comunità ebraica, vale a dire che “si possono propagandare idee fondate sul razzismo anche attraverso il negazionismo della Shoah”.

Un’affermazione di responsabilità che, secondo il legale, “per una pena per quanto lieve” dice che “un paese democratico deve difendere quella che è la storia di questo continente” e “deve lottare per combattere queste idee che si portano dietro odio, razzismo e quant’altro”. Per l’avvocato Donadio, il giudice ha affermato che “l’utilizzo di questi simboli è reato”, tesi che “sostenevamo e sosteniamo ancora oggi”. La difesa dell’imputato, con l’avvocato Pelillo, lasciando il Tribunale ha sottolineato che “la pena è particolarmente modesta”, perché non ha carattere detentivo, e alle parti civili il giudice ha riconosciuto “solo il danno morale”. Dalle motivazioni della sentenza, la decisione di proporre ricorso in appello, finito però con un pronunciamento conforme al primo grado.

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