L’intimidazione, il “lessico familiare” della ‘Ndrangheta VdA

30 Gennaio 2019

Quale elemento concretizza, sul piano pratico, il reato di “Associazione di tipo mafioso”, di cui sono accusati i sette presunti componenti della “locale” di ‘Ndrangheta arrestati nell’operazione Geenna, nonché coloro che li avrebbero “appoggiati” esternamente, come l’assessore comunale Monica Carcea e il consigliere regionale Marco Sorbara (finiti, a loro volta, in manette nel blitz di Dda e Carabinieri)?

La risposta la dà lo stesso Gip Silvia Salvadori, nell’ordinanza con cui ha disposto la custodia cautelare per sedici indagati: l’organizzazione, per potersi dire “mafiosa”, deve possedere una capacità di intimidazione attuale. L’aggettivo che chiude la frase non implica però l’“effettiva esplicazione di atti intimidatori, mediante violenza o minaccia, né tantomeno effettiva commissione di reati”.

L’attualità può anche derivare “dal prestigio o dalla fama criminale che il gruppo ha acquisito nei territori da cui l’associazione promana”, cioè – nel caso specifico – “dai collegamenti strutturali con la ‘ndrangheta calabrese”. Dei rapporti del sodalizio aostano con la “casa madre” abbiamo già detto, ma per la sua natura l’inchiesta vive non solo delle condotte, ma anche delle parole e dei “rituali” degli indagati.

Al riguardo, l’ordinanza riporta un “glossario” ‘ndranghetista. Vi compaiono anche i termini sulla collocazione gerarchica degli associati, nota come “dote”. In particolare – si legge – “con il ‘battesimo’, definito anche ‘taglio della coda’, si entra a far parte dell’‘onorata società’ con il grado o ‘dote’ di ‘picciotto’”, primo gradino dopo un periodo “di prova” sotto la guida di un affiliato. Una volta concessa la “dote” non può essere revocata, salvo demeriti eccezionali.

“Alessandro è un bravo ragazzo”

Proprio dell’opportunità di “tagliare la coda” ad Alessandro Giachino discutono al telefono, nel gennaio 2016, Marco Fabrizio Di Donato e Nicola Prettico, ritenuti dagli inquirenti rispettivamente il “capo” dell’articolazione ‘ndranghetista valligiana e un “partecipe” della stessa. Il primo si dice propenso al gesto, ma il secondo (peraltro, collega di Giachino al “Casinò de la Vallée”) esclama: “no, non è pronto”. Dinanzi all’incredulità dell’interlocutore (“non è pronto…?”), Prettico insiste: “non lo vedi pure a tavola… non si comporta”.

Un’osservazione che Di Donato respinge fermamente (“ah! Nicola non bestemmiare eh… Ale sa stare a tutti i tavoli”), incontrando la strenua opposizione del suo presunto sodale: “hai visto Ale c’ha 1000 euro di roba addosso, dove li ha fatti sti soldi non lo so secondo me a qualche punto e banco…”. Per il Gip, dopo l’intercettazione telefonica da parte dei Carabinieri del Gruppo Aosta, “non è emersa” la “prova della celebrazione del rito di affiliazione”, ma le lodi di Giachino vengono tessute anche da un altro arrestato, il ristoratore Antonio “Tonino” Raso.

Telefonando al cognato, nel marzo 2016, racconta che “ieri sera è venuto il compare a salutarmi (Marco Fabrizio Di Donato, ndr.)” e “poi mi ha detto che c’era Alessandro che è andato da sua nonna”. L’evocazione del nome di Giachino porta Raso ad una conclusione perentoria: “Alessandro è un bravo ragazzo, sai?”. Il parente corrobora il giudizio e il titolare della pizzeria “La Rotonda” va oltre: “poi è uno che si sa fare i cazzi suoi, ma a trecentossessanta gradi, è meglio di noi”.

“Sabato… aprite con sta cippa di minchia”

La forza d’intimidazione derivante dal vincolo associativo, per il Gip Salvadori, attraversa anche altri episodi. Uno ruota attorno alla “Fra.Ni.Do”, società fondata nel 2010 da Nicola Prettico ed altri per la gestione di discoteche. Oggi è in liquidazione, ma cinque anni dopo apre il “Prince” a Quart e, per finanziare la ristrutturazione, accede ad un credito bancario per il quale è stata necessaria “una fidejussione che ha firmato” Antonio Raso, “su richiesta” di Marco Fabrizio Di Donato.

“Tonino”, nel novembre 2015, chiede a Finaosta “la concessione di un mutuo regionale per l’acquisto della casa”. In quell’occasione, “viene a sapere che la fidejussione costituisce causa ostativa” all’ottenimento del finanziamento e, “anziché rappresentare la situazione ai soci”, come “normalmente avrebbe dovuto accadere”, si rivolge “direttamente a Di Donato” (Marco Fabrizio, ndr.), “chiedendone l’intervento”.

Questi è furente per la riluttanza mostrata dal socio individuato per subentrare a Raso nella firma e, al telefono con Prettico, sibila: “visto che questa cosa qua è anche una mancanza nei miei confronti… io adesso oggi gli dico a Tonino di togliere i parcheggi… (antistanti la discoteca, per i clienti, ndr.)”. “Così già sabato… – continua Di Donato, riferendosi al socio “sordo” ai “richiami” – aprite con sta cippa di minchia… Vedi entro due giorni o gli togliete la firma o vi faccio cacciare i parcheggi”.

La manovra va a buon fine, perché nei giorni dopo avviene il subentro nella garanzia (che presumibilmente era relativa ad un prestito o mutuo, visto che nei controlli gli inquirenti non han trovato tracce di fidejussioni), tuttavia “per risolvere una vicenda di natura civilistica è stato necessario ricorrere all’intervento di Di Donato”, definito dal Gip in questo passaggio “Capo clan”.

“Questi li teniamo noi sotto controllo”

All’intimidazione l’organizzazione non ricorre solo per perseguire i suoi obiettivi, ma anche per riparare sotto la sua ala. Dall’ordinanza emerge infatti che, nel giugno 2011, Marco Sorbara si rivolge ad Antonio Raso “per chiedergli di intervenire e proteggerlo”, dopo aver ricevuto “gravi minacce” da due fratelli. La vicenda era stata raccontata dallo stesso consigliere regionale arrestato al fratello, aggiungendo che “Tonino” lo aveva rassicurato: “non ti preoccupare questi li teniamo noi sotto controllo”.

Secondo il giudice Salvadori, una vicenda rivelatrice dell’attitudine di Sorbara. Malgrado all’epoca fosse Assessore alle politiche sociali del Comune di Aosta, “anziché rivolgersi alle forze dell’ordine ed alla magistratura”, sollecita un soggetto “in grado di fronteggiare la minaccia di tipo mafioso” perché appartenente al “medesimo contesto delinquenziale”. Una circostanza che getta “già fondati sospetti sulla natura dei rapporti che legano” l’amministratore sospeso dall’Union Valdôtaine agli “esponenti della ‘ndrangheta calabrese presenti sul territorio”.

“Ci sono i carcerati che devono mangiare”

Il “fil rouge” intimidatorio tange anche vicende in cui i supposti ‘ndranghetisti si prodigano per recuperare soldi poi spesi per il mantenimento dei detenuti. In particolare, in una conversazione relativa alla mancata consegna di una somma da parte di tale Franco, Marco Fabrizio Di Donato intima a Prettico di farseli dare: “si però gli dici ascolta Fra, qua non c’è prezzo non c’è cosa gli dici… perché qua così veramente ci sono i carcerati che devono mangiare... digli proprio così”. Per gli inquirenti, “verosimilmente si tratta della pianificazione ed ideazione di una condotta estorsiva”, della quale tuttavia “non sono state intercettate ulteriori conversazioni”. Lo stile, però, è sempre quello e appare nell’inchiesta torinese più delle armi.

Exit mobile version