Rollandin al processo sulla ‘ndrangheta: 12 minuti a negare contatti con gli imputati
A citarlo erano state le difese di ben tre dei cinque imputati del processo “Geenna”, elemento che ne faceva il testimone più atteso dell’udienza di oggi, mercoledì 24 giugno, arrivando oltretutto a Palazzo di giustizia dopo un altro “ex” eccellente di piazza Deffeyes, Bruno Milanesio. Eppure, Augusto Rollandin, l’“Imperatore” della politica valdostana, che per i capi della “locale” di ‘ndrangheta emersa dall’inchiesta era “il Testone”, non è rimasto in aula per più di una dozzina di minuti, scivolati via prevalentemente nelle domande delle parti. Un uomo fedele ad oltranza al suo stile, sia estetico (non lo si è mai visto in tribunale senza un completo e nemmeno oggi, malgrado la temperatura, ha fatto eccezione), sia verbale (in cui la sintesi è già prolissità).
Con Prettico “un rapporto come con altri”
Nicola Prettico? “Avevamo un rapporto come con tanti altri che sono dello stesso movimento”, ha risposto l’ex Presidente della Regione all’avvocato Nilo Rebecchi, riferendosi alla militanza comune nell’Union Valdôtaine con il consigliere comunale di Aosta (oggi sospeso), a giudizio per associazione a delinquere di stampo mafioso. Qualche parola in più Rollandin l’ha dedicata a spiegare le funzioni del Conseil Fédéral del “Mouvement”, di cui lui e Prettico facevano parte al tempo dell’inchiesta, iniziata a fine 2014: “è un organo consultivo e deliberativo, si riunisce quando c’è da prendere una decisione importante rispetto alla linea politica, o altri interventi di livello politico”.
Tra gli oggetti sequestrati all’imputato, in carcere dalla notte del 23 gennaio 2019, figura anche una copia della carta d’identità di Rollandin, ma “non mi ricordo di aver presentato una copia” del documento. Il difensore è sembrato voler introdurre una possibile spiegazione con la domanda successiva (“Ricorda se Prettico la aveva invitata a una partita di calcio a Torino?”), ma l’ex Presidente si è fatto netto: “non sono mai andato a Torino con lui…”. Quindi, il microfono è passato a Claudio Soro, legale al fianco di Monica Carcea, chiamata a rispondere di concorso esterno nella “locale” al centro delle indagini.
Nessuna pressione per Carcea
“Non la conosco personalmente” ha detto l’“imperatore” dell’ex assessore alle finanze del Comune di Saint-Pierre. Sollecitato dal legale sull’incontro che secondo le investigazioni dei Carabinieri avrebbe avuto, all’indomani delle amministrative 2015, con la donna e Marco Fabrizio Di Donato (imputato quale supposto vertice della “locale” nel ramo torinese del processo), Rollandin ha smentito con vigore: “Non ho fatto riunioni con loro”. Ha altresì negato di aver telefonato al sindaco del comune eletto in quella tornata, Paolo Lavy, per far ottenere a Carcea l’ incarico in Giunta: “non ho mai avuto rapporti con lui”.
“A cena solo come Presidente”
L’avvocato Ascanio Donadio, che difende il ristoratore Antonio Raso dall’imputazione di essere stato componente del sodalizio criminale, ha approfondito la volontà, anch’essa rilevata dalle indagini, di organizzare un incontro tra il vertice del governo valdostano e l’allora presidente della Regione Calabria, Mario Gerardo Oliverio. “Non ho mai fatto richieste d’incontro” ha commentato Rollandin. Per poi aggiungere: “C’era una tradizione che a Sant’Orso il comune di Aosta, in collaborazione anche con la Regione, invitava degli eletti a venire su per la fiera”. Alla cena tenutasi il 31 gennaio 2012 alla “Rotonda”, “mi ero limitato come Presidente della Giunta a partecipare”.
La e-mail “fantasma”
In quell’occasione, però, non “non ho parlato fuori dal locale” con Raso. Il presidente del collegio giudicante, Eugenio Gramola, probabilmente memore della foto scattata ai due dai militari appostati nei pressi della pizzeria, ha quindi ripetuto la domanda al testimone, ottenendo a mo’ di precisazione: “Mi hanno accompagnato fuori dalla porta, ma non c’è stato alcun dialogo”. Concluso l’esame delle difese, la palla è passata al pm Stefano Castellani, che ha mostrato a Rollandin (ancora oggi consigliere regionale, ma sospeso dalla carica, a seguito della condanna a quattro anni e sei mesi di reclusione riportata nel primo grado del processo “Corruzione VdA”) una immagine trovata dagli inquirenti nel computer sequestrato a Raso al momento dell’arresto.
Si riferisce ad una e-mail inviata dalla casella dell’ex Presidente al sottosegretario Catricalà (carica da questi rivestita tra il 2011 e il 2013), per richiedere un incontro sul tariffario del traforo del Monte Bianco. È verosimile che il rappresentante dell’accusa volesse indagare non tanto il contenuto, quanto il fatto che un messaggio del massimo rappresentante istituzionale della Valle fosse finito nelle mani di un presunto affiliato alla ‘ndrangheta. Tuttavia, Rollandin ha spiegato “io non mando mai mail, questa casella non la uso necessariamente io”. Gramola, sapendo chi aveva davanti, lo ha guardato affermando: “Lei un incontro non lo avrebbe chiesto per e-mail, eh?”. “No, io no”. L’ex “numero uno” di piazza Deffeyes ha quindi lasciato l’aula.
“Con i Di Donato una bella amicizia”
Il resto del pomeriggio è stato quindi utilizzato per ascoltare tre testimonianze volute dalla difesa del dipendente del Casinò Alessandro Giachino, altro supposto “partecipe” della “locale” del capoluogo. La figlia adolescente di Giachino ha raccontato del legame nato tra il 2015 e il 2016 tra la sua famiglia e quella di Marco Fabrizio Di Donato: “era un’amicizia bella, serena, in una bella atmosfera, giocosa”. “Sì, ho visto delle persone che mi erano sconosciute, – ha proseguito, rispondendo alle domande – ma io pensavo a giocare con le tre figlie di Marco”.
L’avvocato Soro ha poi chiesto se, in quegli incontri, si fossero mai sentiti discorsi “particolari”, fatti dagli adulti, ma “no, assolutamente no”. Parole sulle quali è stata incalzata da un Gramola oggi apparso all’apice dell’attenzione: “non sapevate niente di Di Donato?” (il riferimento è ai suoi precedenti, ndr.). “Sapevo che ha avuto delle cose in passato, ma ci tengo a dire che tutto questo non cambia quello che abbiamo vissuto nell’amicizia”. “Insomma, – è stata la replica del giudice – non è proprio un piccolo dettaglio nella vita di questa persona”.
I lavori “soffiati” tra artigiani calabresi
Infine ha deposto un artigiano, protagonista di un episodio di lavori idraulici “soffiatigli” da un’altra ditta nell’ottobre 2015 (per la Dda di Torino, la forza d’intimidazione del sodalizio si mostrava anche nell’ambito delle opere private). L’uomo ha detto di essere stato in rapporti “buoni, ottimi” con l’altro imprenditore, anch’egli di origini calabresi, ma quella circostanza fu origine di un “disaccordo”. Secondo le indagini, disse del torto subito sia a Raso (di cui è cognato e “siamo cresciuti nella stessa casa”), sia a Roberto Alex Di Donato (imputato di associazione a delinquere, come il fratello, a Torino), perché “siamo amici, ci si conosce”.
Ancora una volta, Gramola: “ma in tutta questa fraternità, non le seccava che le avessero soffiato questo lavoro?”. “Certo”. Da lì a chiedere se avesse invocato un intervento dei due è stato un attimo, ma “no, non lo ho chiesto, ho solo raccontato” l’accaduto. Per poi concludere: “Ci siamo battibeccati con l’altro artigiano, poi è finita lì. Ci sono rimasto male”. “Adesso siete tornati fraterni?”, lo ha sollecitato ancora il giudice. “Sì”. L’udienza, tolta attorno alle 15, riprenderà domani, giovedì 25 giugno, con le deposizioni di testimoni citati dalla difesa di Monica Carcea.