‘ndrangheta, perché la Cassazione ha annullato la confisca dei beni di Raso
Nel confermare, il 20 gennaio 2022, la confisca dei beni già oggetto di sequestro preventivo nei confronti di Antonio Raso, la Corte d’appello di Torino “eludeva, pur richiamandoli formalmente, i temi censori sollevati dalla difesa” del ristoratore, “non fornendo alcun chiarimento in ordine alla perimetrazione temporale indispensabile per valutare la legittimità della misura”. Il titolare de “La Rotonda” è imputato per associazione di tipo mafioso (in attesa di un nuovo giudizio d’appello) nel processo “Geenna” sulle infiltrazioni di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta.
E’ il giudizio della prima Sezione penale della Corte di Cassazione, contenuto nella sentenza in cui motiva la decisione, adottata lo scorso 13 aprile, di annullare il decreto di confisca, disponendo il rinvio alla Corte d’Appello di Torino per un nuovo giudizio in merito. Il provvedimento, deliberato nell’aprile 2021 dal Tribunale del capoluogo piemontese, e poi confermato in secondo grado rigettando l’impugnazione del ristoratore, applicava la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza a Raso.
Questa, nella visione la Corte d’appello, “derivava dal suo inserimento nell’ambiente della criminalità organizzata ‘ndranghetistica presente nella Valle d’Aosta”. Tale inserimento, “risalente al 2009”, tra l’altro, “si riteneva provato sulla base del procedimento penale nel quale il prevenuto era stato condannato, nei primi due gradi di giudizio, quale affiliato di una ‘locale’”.
Nel contempo, gli accertamenti contabili eseguiti nel procedimento di prevenzione, riguardanti l’arco temporale tra il 1993 e il 2017, “avevano evidenziato una forte sperequazione reddituale tra le entrate della famiglia“ del ristoratore “e gli investimenti effettuati, che apparivano ingiustificati alla luce delle risorse economiche di cui disponeva il nucleo”. Tutti elementi che, per i giudici d’appello, “imponevano la conferma del decreto impugnato”.
Pronunciandosi sul nuovo ricorso del difensore di Raso, l’avvocato Ascanio Donadio, la Suprema Corte ha però ritenuto fondate sei delle otto censure sollevate, concernenti la sussistenza della “correlazione temporale tra la pericolosità sociale” di Raso e “l’acquisizione dei beni confiscati”, nonché la dimostrazione della “sproporzione reddituale legittimante l’adozione della misura” applicatagli.
In particolare, per la Cassazione, la Corte d’appello avrebbe dovuto verificare “le somme utilizzate dalla famiglia di Raso” per acquisire quanto sottoposto a confisca “erano state accumulate nel periodo in cui era stata accertata la pericolosità sociale qualificata del prevenuto”, fatta risalire al 2009. Rispetto a questa “imprescindibile correlazione cronologica, – scrive la Suprema Corte – nel provvedimento impugnato nessuna indicazione adeguata veniva fornita dalla Corte di appello di Torino”.
Erano finiti confiscati, dopo il sequestro del 2019, le quote di titolarità di Raso della pizzeria “La Rotonda” ad Aosta, un alloggio ed un’autorimessa, due autoveicoli e due conti correnti. Il necessario vaglio, prosegue il ragionamento della Cassazione, avrebbe condotto a realizzare che, ad esempio, le quote del ristorante “erano state acquistate dal ricorrente nel 2002”, in epoca “notevolmente antecedente all’inizio della pericolosità sociale qualificata”.
Considerazione analoga viene effettuata, nella sentenza dello scorso aprile, anche per altri beni e, agli occhi della Cassazione, non assumono rilievo decisivo nemmeno “i richiami” dei giudici di appello “al ruolo svolto dal ricorrente nell’ambiente ‘ndranghetistico valdostano”, perché “tali riferimenti” non “permettono di affermare o negare l’esistenza di una correlazione cronologica tra la condizione di pericolosità sociale qualificata di Raso e l’acquisizione dei beni confiscati”. E’ ora attesa la fissazione del nuovo giudizio in Corte d’Appello, chiamata a soffermarsi “sui profili valutativi richiamati”.