Propaganda sì, istigazione no: le motivazioni alla condanna per i “cancelli nazi”
Pubblicando su Facebook dei video negazionisti, diffondendo mediante Whatsapp dei filmati dello stesso tenore ed esponendo simboli nazisti e di apologia della Shoah sui cancelli della sua abitazione di Saint-Vincent, Fabrizio Fournier – il 55enne condannato lo scorso 7 luglio a 5mila euro di multa dal giudice monocratico Maurizio D’Abrusco – ha compiuto atti che “rilevano penalmente ed integrano il reato contestato”. Lo mette nero su bianco il magistrato, nelle motivazioni della sentenza, depositate negli scorsi giorni.
L’uomo era finito a processo con l’imputazione di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. “Le condotte accertate – continua il giudice – offendono in concreto il bene protetto dalla norma, che in primis è l’uguaglianza degli individui”, perché “da un lato esaltano colui che è la massima espressione dell’odio raziale” (in un messaggio vocale, l’imputato aveva definito le camere a gas “bufale” servite per far passare per “mostri” persone che non lo sono state per niente, come “il grande Adolf Hitler”) e “dall’altro sviliscono e degradano alla stregua di mistificatrice le vittime stesse di quell’odio”.
Propaganda fondata sulla negazione della Shoah
Le medesime azioni, tuttavia, “non integrano però anche la fattispecie dell’istigazione, pure contestata in aggiunta a quella di propaganda, in quanto nessuna delle azioni descritte può ritenersi diretta a convincere terzi a porre in essere condotte discriminatorie”. Questo perché “l’istigazione richiede, rispetto alla propaganda, il ‘quid pluris’ dell’incitamento a realizzare specifiche azioni motivate da fini di discriminazione, condotta che nella specie non è ravvisabile in alcuna delle azioni realizzate” da Fournier.
Sussiste, comunque, “l’aggravante contestata, in quanto la propaganda, realizzata con le descritte condotte, si fonda essenzialmente sulla negazione, più che sulla minimizzazione della Shoah, dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra e i mezzi utilizzati sono tali da determinare anche in concreto il pericolo di diffusione, avuto particolare riguardo alla potenzialità diffusiva insita negli strumenti utilizzati”, vedi i social network e la messaggistica istantanea.
Tutto inizia con il sequestro dei cancelli
Il caso era esploso nel 2018, quando la Digos aveva sequestrato i cancelli raffiguranti l’aquila e i i triangoli, che per la Procura di Aosta erano quelli utilizzati dal regime nazista in una sua effige e per la “classificazione” dei prigionieri nei lager. Attraverso perquisizioni ed atti d’indagine successivi, gli inquirenti avevano poi contestato all’uomo le ulteriori condotte volte al negazionismo.
L’imputato non poteva non sapere
Al riguardo, il giudice annota che “l’imputato ha dato prova di essere persona colta” e “gli innumerevoli testi storici da egli posseduti” dimostrano “dimostrano la sicura conoscenza dell’attuale valenza e significato di simboli quali quelli in esame, oltre che la sicura consapevolezza del modo in cui tali simboli sono considerati nel comune sentire delle persone nell’attuale momento storico e in particolare nella comunità locale”. Tanto più che, “la strada sulla quale affacciavano i cancelli conduce, tra l’altro, alla Cappella dei Partigiani di Amay dove è presente il cimitero dei Caduti Partigiani trucidati dai nazifascisti”.
Risposte “irridenti” e “stucchevoli”
Oltretutto, al processo, riguardo alle aquile (ricondotte, da un esperto e studioso di storia contemporanea della Germania che ha deposto, all’emblema della ‘Orpo’, la Polizia dell’ordine del Terzo Reich, attiva anche in Bassa Valle e nel Canavese tra il 1943 e il 1945), Fournier “è arrivato ad affermare, incalzato dalla difesa dell’associazione partigiani (costituitasi nel giudizio assieme alla Regione e alla Comunità ebraica di Torino, ndr.) che se avesse saputo dell’’imbarazzo’ dalle stesse suscitato nella comunità locale avrebbe certamente esposto al loro posto delle ‘poiane’”.
Una risposta, osserva il giudice nelle motivazioni, “irridente e apparentemente innocua che tuttavia rivela la natura pretestuosa del richiamo ad aulici e spirituali significati esoterici” rilanciato dall’imputato sin dall’inizio alle indagini. “Stucchevole” viene, infine, definita la versione data da Fournier rispetto alla denuncia sporta dalla Comunità ebraica torinese dopo il clamore suscitato dai simboli, “in quanto si attendeva di essere dalla stessa contattato prima che fosse assunta siffatta iniziativa, in modo da ‘chiarire’ le sue intenzioni”.
Agli occhi del giudicante, in sostanza, l’imputato “pur consapevole di aver commesso un reato, ed un reato particolarmente odioso, avrebbe preteso che il soggetto leso andasse a chiedergli conto del suo operato e delle sue intenzioni”. Per il magistrato, Fournier è però meritevole delle attenuanti generiche perché “ha comunque dimostrato di avere ad oggi preso coscienza del disvalore penale delle proprie azioni e di tutto quanto la vicenda ha comportato in termini di svilimento e denigrazione dei valori fondanti dell’ordinamento civile e democratico”.
Le difese annunciano ricorso
Il giudice ha quindi optato per l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, ritenendola “maggiormente conforme, nel caso concreto in esame, agli obiettivi e alle finalità di cui all’art. 27 della Costituzione (sulla rieducazione del condannato, ndr.), ritenendosi oltremodo punitiva e, quindi, eccessiva, la pena detentiva, sia pure nei contenuti limitati (tre mesi di reclusione) di cui alla richiesta del pubblico ministero” titolare del fascicolo, Francesco Pizzato. Fournier è difeso dagli avvocati Enrico Pelillo di Bergamo e Danilo Pastore di ivrea che, alla luce delle motivazioni, hanno annunciato ricorso in Corte d’Appello alla condanna in primo grado.