‘ndrangheta, i dubbi della Cassazione sull’esistenza della “locale” di Aosta
La sentenza con cui, il 19 luglio 2021, la Corte d’Appello di Torino ha affermato l’esistenza di una “locale” di ‘ndrangheta ad Aosta, condannando Antonio Raso, Nicola Prettico, e Alessandro Giachino quali suoi componenti? Secondo la Cassazione – che lo scorso 24 gennaio ha accolto i ricorsi difensivi, annullando il verdetto a carico degli imputati e rinviando ad un nuovo processo di secondo grado – è viziata da “lacune motivazionali”, in particolare rispetto alla dimostrazione del ‘collegamento funzionale’ della cellula aostana con la “casa madre” calabrese e all’enunciazione del programma delittuoso dell’associazione attiva in terra valdostana.
Gli elementi dimostrativi del collegamento?
Per la Suprema Corte, che ha depositato giovedì scorso, 4 maggio, le motivazioni della sua decisione, sul primo dei due aspetti la pronuncia dei giudici torinesi è “carente sotto alcuni profili e manifestamente illogica sotto altri” e non individua “alcun elemento da cui desumere quel necessario collegamento organico e funzionale, quantomeno sotto forma di dipendenza, della ‘neoformazione’ con il sodalizio-fonte”. I magistrati di appello, stando alla Cassazione, si sono limitati ad “indicare che detto collegamento dovrebbe derivare da alcuni viaggi effettuati da un soggetto, Giuseppe Nirta, avente lo stesso cognome della stirpe Nirta, ad Aosta”.
Nell’accogliere le impugnazioni dei legali degli imputati, i giudici della Suprema Corte osservano però che il “concetto di ‘stirpe’ dei Nirta di San Luca” è “con evidenza diverso da quello di ‘ndrina”. Inoltre, affermano che tale riconduzione, con l’indicazione nel giudizio di secondo grado del “curriculum criminale” di Nirta (ucciso in Spagna nel giugno 2017), non possa ritenersi elemento “dimostrativo del collegamento ‘funzionale’ tra l’ipotizzata locale aostana e la ‘casa madre’, locale (o ‘ndrina) di San Luca denominata Nirta-Scalzone, in relazione alla cui esistenza e operatività non c’è in effetti alcuna motivazione”.
La forza di intimidazione all’esterno? Insussistente…
Per la Cassazione, sono fondati i rilievi difensivi secondo cui “la Corte d’Appello ha omesso di confrontarsi con le rigide regole che, sotto il profilo strutturale, contraddistinguono la particolare associazione di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta dalle altre”, con “riferimento al modello ‘organizzatorio’, di cui l’esistenza del collegamento con la casa madre è parte integrante”. In particolare, sarebbe stato “necessario che la sentenza in esame chiarisse come una locale di ‘ndrangheta possa ritenersi esistente anche in assenza di indici strutturali tipici di questa particolare conformazione criminosa, operando in un territorio diverso e lontano da quello calabrese”.
Invece, annota la Cassazione, i giudici del secondo grado hanno certificato l’esistenza di “un sodalizio completamente destrutturato, formato da un gruppo di ridotte dimensioni, in relazione al quale si conterebbero più fiancheggiatori che affiliati”. Dagli elementi probatori raccolti (hanno indagato i Carabinieri, coordinati dalla Dda di Torino), scrive la Suprema Corte, si evince poi “l’insussistenza di una forza di intimidazione promanante verso l’esterno”, dal momento che le principali vicende emerse nel processo “dimostrano tutte la sussistenza di meri rapporti di forza diversi tra soggetti gravitanti nello stesso ambiente di sottocultura criminale, non certo la capacità di promanare all’esterno la tipica” capacità intimidatoria.
Non un programma criminale, ma “fatti singoli”
La necessità di annullamento con rinvio, agli occhi dei giudici della Suprema Corte, era “evidente” considerando le argomentazioni d’appello che “fanno riferimento a un ‘programma’ (delittuoso, ndr.), ma indicano solo fatti singoli, ritenuti collegati pur in assenza di evidenze in tal senso”. A valle di tutto ciò, la Cassazione richiama alcune caratteristiche del caso aostano, “nel quale l’atteggiamento intimidatorio non ha mai assunto connotazioni esplicite, tantomeno spettacolari”, non si è mai “estrinsecato nella commissione di reati tipicamente e tradizionalmente ricollegati al fenomeno mafioso”, e “neppure ha portato alla condanna degli imputati per ‘reati-scopo’ di qualsivoglia natura”.
Tenuto conto di ciò, aggiunge la Suprema Corte, “è evidente che le azioni compiute dai componenti l’associazione in tanto possono essere considerante rilevanti sotto il profilo della loro capacità di integrare l’elemento costitutivo del ‘metodo mafioso’, in quanto possano essere ritenute di per sé evocative della fama criminale dell’associazione stessa”. Però, affinché “quella ‘fama criminale’ possa essere fatta derivare dalla ‘spendita del nome della ‘ndrangheta calabrese”, occorre provare che “il tessuto sociale di riferimento (lontano dalla Calabria), anche in assenza di specifici atti ‘intimidatori’, sia automaticamente in grado di recepire il messaggio che quel collegamento evoca”.
Cade anche il concorso esterno
Con l’accoglimento dei ricorsi difensivi degli accusati di associazione di tipo mafioso, e l’annullamento delle loro condanne (a Raso erano stati inflitti 10 anni di Carcere, 8 a Prettico e Giachino), è caduta implicitamente anche la sentenza nei confronti di Monica Carcea (condannata in appello, per concorso esterno nel sodalizio, a 7 anni di reclusione). L’imputazione di cui doveva rispondere presuppone, ovviamente, sottolinea la Cassazione, l’esistenza di un sodalizio di ‘ndrangheta. La parte di sentenza d’appello impugnata dal suo difensore appare comunque alla Suprema Corte “carente (ove si consideri che una corposa parte di essa è costituita dall’integrale riferimento al contenuto di intercettazioni) e viziata da manifesta illogicità”.
Assoluzione di Sorbara “congrua”
Quanto al ricorso della Procura generale di Torino, contro l’assoluzione in appello dell’ex consigliere regionale Marco Sorbara, è stato ritenuto inammissibile, rendendo così definitivo il suo proscioglimento, perché “richiede una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità, a fronte di una sentenza che” nella parte in cui lo ha scagionato dall’accusa mossegli (così come nell’assoluzione di Raso dal tentato voto di scambio politico-mafioso) “ha sviluppato una motivazione congrua ed esente da vizi di travisamento e manifesta illogicità”.
Con il deposito di queste motivazioni, i difensori degli imputati possono preparare la linea difensiva in vista del processo “Geenna bis”, che dovrà ora essere convocato (e che gli imputati attenderanno in libertà, vista la revoca, nel frattempo, delle misure cautelari cui erano sottoposti). Il ramo processuale per gli imputati con rito abbreviato, invece, si è chiuso lo scorso 20 aprile, con la conferma delle condanne per associazione di tipo mafioso, dando quindi carattere giudiziario definitivo all’appartenenza di quattro persone alla “locale” di Aosta (e all’esistenza della stessa). Le motivazioni di quel processo in Cassazione, dalle quali provare a ricavare il diverso percorso decisionale dei giudici rispetto al procedimento ordinario, non sono ancora disponibili.