Poco meno di due ore di conferenza di Moni Ovadia, al castello Sarriod de la Tour per un nuovo ciclo di “Saint-Pierre dixit”, e l’errabondo giornalista se ne va con pagine di bloc-notes piene di appunti. Da dove partire, nel racconto della serata di giovedì 14 marzo, decisamente partecipata malgrado gli appuntamenti calcio europeo, che hanno quasi rischiato di far saltare l’evento, vista la Milano “strozzata” dai tifosi dell’Entracht, tanto da rendere tortuoso il viaggio dello scrittore verso la Valle? Verosimilmente, dal fatto che le posizioni dell’intellettuale dall’ascendenza ebraica sono – a voler essere linguisticamente generosi – radicali, ma non scevre da suggestioni in grado di far breccia nei moderati.
Premesso che “non sono depositario di verità, ma solo di opinioni”, Ovadia ha proseguito che “il sistema di democrazia rappresentativa ha dato tutto quel che poteva dare, nel bene o nel male”. Quanto alla politica, “è come mettere un cerotto su una ferita purulenta” e, vista la malattia, la cura è una sola: “è necessaria una rivoluzione”. I timori di un novello manifesto extraparlamentare, però, vengono soffocati dal diretto interessato, perché i moti rivoluzionari “cruenti o armati hanno mostrato limiti”. “Il cambiamento – ha scandito – non può essere imposto manu militari”. Quell’induzione “crea uno spirito di rifiuto, che erode quel che di buono c’è in una rivoluzione”.
Tuttavia, occorre agire, “perché non è più a rischio un Paese, non è più a rischio una democrazia autentica. È a rischio un pianeta”. Perché? “Per la dissennata politica che gli uomini fanno e la totale mancanza di rispetto per la natura e la sua sacralità e inviolabilità”. Il progetto rivoluzionario di Moni – declinato a fianco della “mente” della rassegna promossa dall’amministrazione comunale, Davide Mancini – riparte dalla Costituzione, dalla sua “applicazione radicale e consequenziale”. È la carta su cui “giurano i politici di ogni parte”, ma “non la conosce nessuno”.
Un esempio? L’ultima parte dell’articolo 1 (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”) è scritta così per “evitare il plebiscitarismo”. D’altronde, “una vera democrazia la giudichi dallo statuto delle minoranze. Il governo ha già la maggioranza, cosa deve avere ancora?”. È uno dei “contrappesi” del sistema repubblicano, che concorrerebbero “a creare una vera democrazia”, ma la Carta “non è il senso comune”, perché in Italia “non si lavora sull’acquisizione di senso”.
Quindi “la mia richiesta è rendere obbligatorio dalle scuole elementari lo studio della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo”. L’attuazione pratica del principio è: i primi cinquanta articoli dell’una e i trenta iniziali dell’altra a memoria e commentati “e non ti muovi da scuola fino a che non li sai”. Perché “solo fra uomini uguali si può parlare di libertà, sennò è un raggiro”. Una “cura intensiva” che dovrebbe servire, tra gli effetti auspicati, ad aprirci gli occhi su quanto “tutta la politica sull’immigrazione è contraria ai diritti umani”.
“Dovremmo essere in prima fila nell’accoglienza. – sospira Ovadia – Dovremmo avere Mimmo Lucano presidente della Repubblica”. Anche perché i precedenti storici dicono di 30 milioni di emigranti italiani in un secolo (1870-1970), 4,5 milioni dei quali “oggi li chiameremmo clandestini” e del più grande “linciaggio di stranieri degli Usa avvenuto nei confronti di italiani: undici in un giorno”. Anche su un tema tanto “caldo”, il radicalismo razionale dell’intellettuale offre una spiegazione: “sapete perché non sono amati gli stranieri? Perché abbiamo smesso di riconoscere lo straniero che è in noi”.
Parole su cui arriva il messaggio alla tormentata terra mediorientale degli avi dello scrittore e musicista: “quando discuto sulle questioni di Israele vengo considerato antisemita”, ma “se essere per i diritti dei palestinesi lo è, allora io lo sono”. Però, l’esecutivo di Netanyahu è “segregazionista e colonialista. Aggiungo fascista”. Motivo per cui Ovadia ha rotto con le comunità ebraiche in Italia: “siete l’ufficio stampa di un governo, gli ho scritto”. Si potrebbe obiettare che discutere della questione senza considerare terrorismo e ruolo dell’Iran è miope, ma tant’è. Alla fine, “se ne esce vivendo da stranieri in casa propria”, perché “c’è solo l’uomo sapiens su questa Terra. Condividiamo il 99% del codice genetico con le scimmie, di cosa stiamo parlando?”.
Il messaggio finale torna al ragionamento iniziale ed è di speranza: “la Costituzione è come l’arco. La corda che si tende è il passato. La freccia è il futuro. Solo se hai consapevolezza del passato, la tua freccia andrà come quella di Ulisse”. Il problema, completata la rilettura delle svariate pagine di appunti sulla serata, è nelle stesse parole di Ovadia: tra i pilastri dell’uguaglianza vi è “l’accesso all’eccellenza conoscitiva”. Ecco, in quanti – seppur numeroso fosse il pubblico – erano preoccupati, l’altra sera, per questi gli interrogativi toccati a “Saint-Pierre Dixit”, più che per il destino dell’FC Internazionale? La distanza che resta verso un’umanità desiderosa di riprendere le redini dell’avvenire è quella tra le due grandezze.