La pianista Beatrice Rana protagonista di una masterclass e di un concerto alla Saison

La giovane virtuosa pugliese ha tenuto ieri mattina una masterclass al Conservatoire e si è esibita la sera al Teatro Splendor in un repertorio impegnativo, tra Chopin, Debussy e Stravinsky.
Beatrice Rana
Cultura

“Il giorno del concerto per me deve essere a basso consumo energetico”, spiega Beatrice Rana. Ma questo non le ha impedito di concedere un incontro/masterclass presso l’Auditorium del Conservatoire de la Vallée Aoste nella mattinata di ieri, 11 dicembre, giornata che si è conclusa con il suo concerto per la Saison Culturelle allo Splendor.

La pianista pugliese di 28 anni ha scosso il mondo della musica classica internazionale, suscitando ammirazione da parte di direttori, critici e pubblici di tutto il mondo ed esibendosi nelle sale da concerto e nei festival più rinomati. Al pubblico del Conservatoire, folto di insegnanti e giovani musicisti ma anche di “non addetti ai lavori”, la virtuosa ha regalato consigli  musicali preziosi, nonché aneddoti anche divertenti tratti dalla sua esperienza personale, rispondendo con profondità a ogni domanda. Ha poi concluso con un breve commento sui brani del suo recital, che replicherà il 13 dicembre alla Kölner Philharmonie. 

Spesso ci si chiede a che età e in che modo convenga iniziare a suonare. Che consiglio si sente di dare?

Il mio è un caso particolare, perché sono nata in un famiglia di pianisti e ho sempre sentito suonare il pianoforte, fin da quando ero nella pancia di mia mamma. I miei però hanno sempre voluto essere solo dei genitori, perciò mi hanno subito iscritta ad una scuola di musica.

Ho realizzato molto tardi che il piano non è parte della vita quotidiana di tutti, quando una volta sono andata a casa di una mia amica ed ero sorpresa di non trovarvi un pianoforte. In generale, secondo me quanto prima si inizia a suonare meglio è, proprio come vale per apprendere una nuova lingua. Prima si impara a suonare, prima si sviluppa sia il lato fisico, fatto di dimestichezza muscolare e cerebrale, sia il lato espressivo, che rende la musica un vero e proprio linguaggio. 

Nel suonare bene uno strumento, quale percentuale di predisposizione propria si può ipotizzare e quale è frutto dell’insegnamento?

Il musicista è un misto tra un atleta e un prete. La predisposizione fisica e cerebrale conta, come anche avere un buon maestro, ma la terza componente importante è la disciplina. Come insegna la parabola dei talenti, bisogna imparare a moltiplicare il proprio: sia un buon insegnante sia la disciplina aiutano in questo. Io l’ho imparata quando sono entrata a dieci anni nella classe di Benedetto Lupo (presso il Conservatorio Nino Rota di Monopoli, ndr).

Ho subito una specie di shock: prima studiavo a malapena mezz’ora al giorno, ma il giorno dopo la prima lezione mia mamma era stupita che dopo due ore non fossi ancora uscita dalla sala dove ho il piano a casa. La disciplina richiede concentrazione: i miei genitori quando studiavo facevano finta di non esserci ma a volte mi avvertivano quando studiavo “a mulinello”. È un’espressione che usavano per lo studio sterile: studiare non significa solo stare seduti, è la concentrazione che fa la differenza. 

Che consigli darebbe a un giovane musicista che vuole affrontare un concorso?

Prima di tutto ci vuole un buona preparazione: non si va a un concorso per provare un brano, ma si portano dei pezzi già digeriti. E poi non è importante farne tanti, ma fare quelli giusti. Oggi sono sempre di più i musicisti che entrano quasi nella professione di “concorsisti” ma mi sfugge il senso: non è bello fare concorsi, li si fa perché sono un’opportunità per farsi conoscere e per poi suonare in pubblico.

Il mio suggerimento è di non impelagarsi in situazioni frustranti: deve piacere innanzitutto il programma da portare. Per fortuna ho finito presto con i concorsi, all’età di vent’anni. Ora probabilmente mi farebbero venire gli incubi di notte. Ai tempi dei concorsi non vedevo l’ora di poter un giorno suonare più liberamente nei concerti, ma poi mi sono resa conto che in realtà il concorso è una bolla della vita concertistica: il pubblico diventa la vera giuria e ogni concerto è un concorso da conquistare. 

Come affrontare l’ansia da palcoscenico?

Il nostro primo strumento è il corpo. Suonare è un’attività estremamente fisica, anche se si vorrebbe spesso pretendere che la musica trascenda la materialità del corpo. Per me era sempre stato assolutamente normale esibirmi fino all’adolescenza, quando ho preso coscienza del fatto che il pubblico veniva apposta per me. Quello che accade sul palco resta sul palco: ciò che succederà  lo saprò solo al momento dell’esibizione.

Posso però cercare di prevederlo e di conoscere il mio corpo: durante il mio primo concerto internazionale mi sono resa conto che il mio corpo si chiudeva in difesa della tensione, facendomi alzare le spalle e tendere il collo. Allora non c’è giorno che non lavori per cercare di evitare questa reazione. Ogni sera mi devo esibire ma certo non sono tranquilla: so che devo rispondere alle aspettative degli altri e soprattutto alle mie. Però ogni volta imparo qualcosa dalla sera precedente e poi, come diceva Beethoven, l’importante non è suonare tutte le note perfette ma dire qualcosa. 

Qualche parola sul programma di questa sera?

Il fil rouge dei brani è Parigi, dove tutti e tre i compositori hanno vissuto o transitato durante la loro vita. 

I quattro Scherzi di Chopin sono opere visionarie molto più che narrative, come possono esserlo invece i suoi Notturni o le sue Ballate. Sono visioni musicali con estremi importanti, come l’inizio turbolento del primo, che poi si apre su uno squarcio di ninna nanna. Il secondo e il terzo Chopin li ha scritti in uno dei periodi più difficili della sua vita: in una lettera racconta la visione di una processione di preti avuta mentre suonava a Maiorca la sua Sonata n. 2. Nel terzo Scherzo vuole proprio riprendere queste allucinazioni tetre, che poi si risolvono nella serenità dell’ultimo, l’unico in tonalità maggiore. 

Il primo libro di Études di Debussy purtroppo non è molto eseguito. È un Debussy diverso dal solito, più sperimentale e umoristico, come nel primo “Studio per le cinque dita” in cui si prende gioco della tecnica. 

Dei Trois mouvements de Petrushka di Stravinsky (arrangiamento per pianoforte della musica del balletto Petrushka, ndr) mi piace l’uso del piano come strumento sinfonico, l’unico che può davvero farlo. Il vantaggio dei brani orchestrali adattati per pianoforte è che si è direttore d’orchestra di se stessi, quindi ci si può prendere più libertà. Mi piace poi l’aspetto coreografico: l’opera descrive la storia di un burattino che vuole diventare umano e il suo dramma è esteriorizzato dalla coreografia del balletto e nella versione pianistica dalla coreografia delle mani.

 

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