“Un romanzo di fatti”: Alessandra Carati riscrive la figura di Rosa Bazzi

L'autrice Alessandra Carati è tra i finalisti del Premio letterario della Valle d’Aosta con Rosy, romanzo ispirato alla figura di Rosa Bazzi. In questa intervista racconta genesi, ricerca e riflessioni sul confine tra verità, colpa e rappresentazione.
Alessandra Carati
Cultura

Con “Rosy” (Mondadori), il suo ultimo romanzo ispirato alla figura di Rosa Bazzi, incontrata nel carcere di Bollate, Alessandra Carati è tra i finalisti della prima edizione del Premio letterario della Valle d’Aosta. Classe 1975, originaria di Monza e oggi residente a Milano, Carati è scrittrice, editor e sceneggiatrice. Ha lavorato a lungo per il cinema e il teatro come autrice e formatrice, e vanta una solida esperienza nell’editoria, anche come ghostwriter. Negli anni ha firmato biografie e collaborazioni di grande forza narrativa, soprattutto nel mondo dello sport.

Con il suo romanzo d’esordio E poi saremo salvi (Mondadori), è stata finalista al Premio Strega 2022 e vincitrice del Premio Viareggio-Répaci 2021 per l’Opera Prima. Rosy rappresenta oggi un nuovo tassello nella sua ricerca narrativa: un’indagine profonda sulla complessità del giudizio e sulla zona grigia che separa colpa, verità e rappresentazione.

Rosy di Alessandra Carati
Rosy di Alessandra Carati

Come nasce “Rosy”? Cosa ti ha spinto a raccontare una storia ispirata al caso di Erba?

Nel febbraio 2019 vengo a sapere che Rosa Bazzi rilascerà un’intervista in carcere; d’impulso, chiedo alla direzione di poter assistere come uditrice. Per tutta la durata dell’intervista resto in disparte. A incontro finito Rosa si avvicina e, inaspettatamente, mi chiede di scrivere di lei. Nei mesi che seguono, le faccio visita ogni settimana in sessioni che durano ore. Credevo che conoscerla di persona mi avrebbe permesso di dare un senso a tutte le parole e le immagini che sono state prodotte su di lei, di separare i fatti dai detti; invece la vicinanza offusca il quadro: Rosa mi travolge con il caos dei suoi discorsi, mi soffoca con un’ansia che impedisce ogni dialogo; mi disorienta. Per tentare di capire, inizio a studiare il materiale disponibile: interrogatori, intercettazioni, foto e rilievi della scena del crimine, relazioni dei periti, atti del processo di primo e secondo grado, relazioni del carcere, consulenze, confessioni, video, l’enorme rassegna stampa, le testimonianze dirette di vicini e conoscenti. Raccolgo una montagna di informazioni, eppure non approdo a nulla, non riesco a immaginare una struttura, una focalizzazione, un punto d’attacco. Ci vogliono quattro anni perché arrivi una prima stesura. Avevo diverse ragioni per resistere a questo libro, legate al groviglio che la vicenda porta con sé. Della strage di Erba si è scritto moltissimo, mi confrontavo con un racconto profondamente cristallizzato e condiviso, sapevo che sarebbe stato un ostacolo enorme.

Il libro oscilla tra cronaca, romanzo e riflessione psicologica. Come hai gestito questo equilibrio?

Sarebbe stato semplice imboccare delle vie già battute, legate per esempio alla scrittura di genere, oppure a un canone che esiste per questo tipo di romanzi. C’è una lunga tradizione – ‘A sangue freddo’ di Truman Capote, ‘L’impostore’ di Javier Cercas, ‘La città dei vivi’ di Nicola Lagioia, ‘L’avversario’ e ‘V13’ di Emmanuel Carrère – in cui la scrittura parte da fatti realmente accaduti e si struttura intorno allo sguardo dell’autore. La tentazione era dietro l’angolo e ho ceduto. Questo tentativo è nella prima stesura, che ho accantonato del tutto e che mi è servita per mettere ordine nella massa dei documenti processuali e della rassegna stampa. Da qui ne è sgorgata una seconda, con una direzione chiara. Il libro è un avvicinamento progressivo alla figura di Rosa Bazzi attraverso gli sguardi di persone che hanno avuto a che fare con lei negli ultimi vent’anni: prima i vicini, poi la stampa, poi la psicologa che la osserva nei mesi di custodia cautelare subito dopo l’arresto, gli avvocati, e solo alla fine il mio su di lei, dentro il carcere. Nel continuo slittamento di prospettiva, affiora la rete delle relazioni di potere, di dominio e di lotta, in cui siamo abituati a funzionare e su cui si appoggiano i nostri discorsi; affiora, come in una polaroid, Rosy e, insieme a lei, si fa strada il dubbio su dove e come si forma il nostro giudizio.

Qual è, secondo te, il ruolo della letteratura nei confronti della cronaca nera? Pensi che possa aiutare a restituire complessità oltre la condanna mediatica?

Il territorio della letteratura sono le zone grigie, i confini incerti dove avvengono gli eccessi, gli abusi e dove, proprio per questo, la responsabilità, la scelta, il libero arbitrio sono più profondamente esplorabili. Nella letteratura è permessa la sopravvivenza di fatti contraddittori, la possibilità e il diritto di non ridurli a una sintesi concettuale, concentrazionaria e puntiforme. ‘La storia della colonna infame’ di Manzoni – su cui tanto ho ragionato prima di scrivere – è un’indagine sulle passioni che conducono alla furia del male, nella triangolazione micidiale tra moltitudine, giudici, vittime. Non c’è opera che mostri con tanta efficacia la scorciatoia cognitiva messa in atto per risolvere una situazione opaca e inquietante. Manzoni mette in scena il modo tutto umano di affrontare la violenza, ossia scaricarne il peso e la responsabilità su qualcun altro. Non sono i personaggi di questa storia a trovarsi in una zona incerta tra bene e male, siamo noi.

Come hai gestito la distanza necessaria con un tema così delicato?

Spesso mi sono sentita persa nell’incomprensibilità dei fatti e della protagonista – dico protagonista perché questo è un romanzo, un romanzo di fatti – ed è una sensazione che pervade anche il lettore, credo. In quei momenti mi sono aggrappata ai dettagli, alla loro forza e capacità di evocare interi mondi. E al rigore della scrittura. Ecco, ho sempre cercato il rigore, la massima onestà nei confronti della massa narrativa. Credo che una spietata onestà chiami a una riflessione profonda. Le cose sono lì, si può scegliere se vederle o non vederle. La narrazione è laterale, discreta, evita di interpretare i fatti e cerca solo di entrare nella mente di Rosa. Volevo lasciare al lettore lo spazio per esercitare il ​​proprio sguardo, senza farlo entrare in empatia con nessun personaggio, ma con il romanzo nella sua interezza.

Si parla spesso di “responsabilità”, “colpa”, “verità”. Nel tuo romanzo queste categorie sono sfumate. Che idea ti sei fatta, oggi, dopo aver scritto “Rosy”?

Per anni ho pensato che avrei scritto dell’inchiesta, della verità giuridica, di quella fattuale (e la sua nebulosa), dei punti in cui le due si discostano. Avrei approfittato dell’ordine del discorso giuridico, mi sarei affidata alla sua compattezza per garantire la mia credibilità presso il lettore. Ci ho provato nella prima stesura, l’ho messa da parte. Lo scardinamento dell’accusa ha perso importanza, così come l’innocenza presunta o l’accertata colpevolezza. Ho abbandonato il racconto frontale, perché il fuoco era altrove. Il punto di partenza è la Rosa Bazzi che vive nella narrazione totale, pervasiva, monolitica dei media: il carrarmato, il mostro, l’assassina feroce, la maniaca, la nevrotica oscura, la madre mancata, la donna delle pulizie diabolica e manipolatrice; ed è il luogo in cui il lettore si trova – in cui mi sono trovata – all’inizio di questa storia. I materiali di cui si compone il libro sono i residui di questa narrazione, tutto il cascame che è stato tagliato ed è rimasto fuori dall’inquadratura. Il libro è arrivato quando mi sono arresa: niente si dà in modo assoluto, ogni realtà esiste come relazione.

Dopo questo libro, pensi che tornerai ancora a confrontarti con un tema di cronaca o di giustizia?

 Non mi è mai interessata la vicenda in sé, la mia curiosità si è mossa da subito verso Rosa, verso la radicalità della sua vita. Desideravo capire. È l’esperienza umana a interessarmi, in ogni sua possibile manifestazione.

 

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