La Procura di Aosta ha chiuso l’inchiesta nata dagli accertamenti sull’attività di due cave di “pietra verde” ad Issogne, poste sotto sequestro all’epoca degli accertamenti. Appurata, nel corso delle investigazioni, l’assenza di pericoli per la salute pubblica, sono sei gli indagati che hanno ricevuto, negli scorsi giorni, l’avviso di chiusura delle indagini preliminari. Gli addebiti, mossi a vario titolo, riguardano violazioni alle norme di gestione dei siti estrattivi e di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Gli indagati sono i titolari delle due cave. Per la Marmo Verde Alpi, i fratelli Marino, Renato e Christian Dal Bosco, e per la Priod Savino (gestita, dal 2017, da una società diversa da quella che l’aveva storicamente in esercizio), Attilio e Nicola Bencaster, cui si aggiunge il loro tecnico di riferimento Fabio Croatto. Nelle investigazioni, sviluppate su questo aspetto dallo Spresal dell’Usl, sono emerse situazioni diverse tra i due impianti.
Gli accertamenti nelle cave
Per la cava Marmo Verde Alpi, che è stata dissequestrata durante l’inchiesta, a fronte di una regolarità formale dei documenti di sanità e salute prescritti, i lavoratori non sarebbero risultati formati per tutelarsi rispetto alle mansioni che dovevano svolgere, né avevano in uso i dispositivi di protezione individuali adeguati alle lavorazioni nel sito (mascherine e simili).
Nell’altra cava, la Priod Savino, ancora oggi sottoposta a sequestro, gli inquirenti hanno rilevato irregolarità nella documentazione prevista (ad esempio, per l’assenza dell’indicazione del rischio per i lavoratori legato alle fibre di amianto, presenti naturalmente nella pietra verde). Dall’inchiesta è anche stato appurato che l’attività, nel sito, era svolta per conto terzi da un cavatore, che ha patteggiato in uno stralcio dell’inchiesta una pena di due mesi, per le violazioni alle norme di sicurezza.
A questa serie di contestazioni si aggiungono quelle sulla violazione delle disposizioni sulla gestione delle cave di marmo verde (contenute in un decreto ministeriale del 1996), per l’irregolarità degli autocontrolli cui i titolari dei siti erano tenuti sul prodotto estratto e sull’omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (in questa fattispecie rientra, per la legislazione, l’esposizione alle fibre di amianto dei lavoratori).
Gli altri filoni dell’inchiesta
Le idagini si erano sviluppate anche lungo altri due filoni investigativi. Il primo – di cui si era occupato il Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri di Torino – aveva originato l’inchiesta ed aveva al centro la potenziale pericolosità di alcuni prodotti realizzati con le rocce estratte nelle cave (in particolare, delle pietruzze da presepe), vista la naturale presenza di amianto al loro interno.
Gli inquirenti hanno ricostruito e risalito tutta la filiera del prodotto, dai rivenditori finali giungendo ai siti d’estrazione in Valle. Le verifiche dell’Arpa Liguria (e, successivamente, dal Centro Regionale Amianto dell’Arpa Piemonte) hanno restituito valori al di sotto delle soglie di pericolosità note. L’altro filone investigativo, seguito dai Carabinieri del Reparto Operativo del Gruppo Aosta, riguardava l’attuazione delle attività di polizia mineraria in capo all’amministrazione regionale (competente nell’autorizzare le attività estrattive).
A fronte dell’assenza di controlli svolti, nel tempo, nei due siti oggetto dell’inchiesta, le indagini hanno restituito una situazione di oggettiva carenza del personale del servizio regionale competente, rispetto alla molteplicità di compiti cui era chiamato l’ufficio. La posizione del dirigente, inizialmente indagato, è stata stralciata e si profila l’archiviazione.
