Paolo Genovese conquista lo Splendor con “Perfetti Sconosciuti”

Sold out per lo spettacolo teatrale tratto dal film campione di incassi nel 2016. Una commedia drammaticamente attuale, che mette a nudo le fratture tra vita pubblica, privata e segreta nell'era degli smartphone.
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Cultura

“Facciamo un gioco. Mettiamo qui tutti i nostri i cellulari e, per tutta la durata della cena, quello che arriva arriva. Messaggi, telefonate, whatsapp: li leggiamo e ascoltiamo tutti insieme. Tanto non abbiamo segreti, no?” È con questa provocazione – e apparente innocuo detonatore – che si accende lo spettacolo “Perfetti Sconosciuti” di Paolo Genovese, portato ieri sera allo Splendor da Nuovo Teatro, in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana e Lotus Production. Adattamento teatrale del film omonimo campione di incassi nel 2016 e con oltre 25 remake al mondo, l’opera è arrivata sul palco valdostano, fedele alla versione cinematografica, senza aver perso nulla della sua freschezza e attualità. In scena, Dino Abbrescia, Alice Bertini, Paolo Briguglia, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Cristina Pellegrino e Valeria Solarino interpretano un gruppo di amici storici che, durante una cena a casa, decide per gioco di condividere pubblicamente tutto ciò che riceve sui propri cellulari.

Basta poco – il tempo di un’eclissi di luna – per far calare le ombre sulla commedia. Gli schermi si illuminano, le notifiche arrivano, le chat si aprono: parole, pensieri e fatti sempre taciuti iniziano a invadere la scena e il terreno del gioco vira, e frana inevitabilmente, verso il dramma. Gli amici e le coppie – Eva e Rocco in crisi di mezza età, Cosimo e Bianca, appena sposati con il desiderio di un figlio, Carlotta e Lele insieme da dieci anni e Beppe, single disoccupato (potremmo essere noi) – si rivelano progressivamente, oltre ogni maschera sociale. L’interiorità e l’autenticità di ognuno – dalle fantasie ai desideri, dai dolori alle paure – represse sulla scena, affiorano dapprima in filigrana, poi più apertamente, rivelate dalla “scatola nera della nostra vita”, per dirla con Eva (Valeria Solarino). Tra imbarazzi, giudizi e silenzi, gli equivoci, le bugie e i segreti diventano il motore destabilizzante di ogni interazione: c’è chi va in analisi senza averlo detto al partner, chi vuole mandare la suocera in ospizio, chi non ha condiviso la propria omosessualità agli amici. Ci sono ex che tornano con messaggi, figli che si confidano con un solo genitore, altri uomini e altre donne.

Un cast corale per un gioco al massacro

Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta.” – scriveva Gabriel García Márquez. La frase, in apertura al film del 2016, risuona anche nell’opera teatrale. Attorno al tavolo della cena, i piccoli e i grandi segreti dei protagonisti incrinano l’immagine pubblica di ognuno e rovesciano gli equilibri dell’amore e dell’amicizia. L’apparente coincidenza tra vita pubblica, privata e segreta si sfalda progressivamente, rivelando quanto palcoscenico e ribalta facciano fatica a rimanere incollati l’uno all’altro. Ambientata in unità di luogo, tempo e azione, la commedia diventa, nell’arco di un’ora e mezza, un dramma del nostro tempo. Lo sguardo di ognuno smette di intercettare quello degli altri e si rinchiude nel pensiero personale, le luci iniziano a illuminare o lasciare in ombra i personaggi rispecchiando i chiaroscuri di cui ognuno è fatto. In una sceneggiatura che si appesantisce di frasi taglienti, emozioni accese e lunghi silenzi, gli attori portano in scena un gioco al massacro che ricorda il testo teatrale di Yasmina Reza e tutta quella drammaturgia claustrofobica che, rinchiudendo i personaggi in una stanza, non permette alcuna via di fuga. 

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Un finale rassicurante, perché siamo frangibili

Genovese provoca suoi personaggi – e quindi noi – sulla misura in cui ci conosciamo, su quanto siamo effettivamente “perfetti sconosciuti” agli altri. La commedia, che mette in scena temi universali come l’amore, l’amicizia, la genitorialità e il tradimento, offre uno spaccato sulla difficoltà di essere autenticamente se stessi e sulla disavventure della comunicazione in una società sempre più liquida, in cui gli smartphone sembrano essere i nostri più cari, devoti e silenziosi complici.

Fino al finale, però. Alla fine, il nastro si riavvolge e tutto torna come prima. Dopo avere abbandonato la scena soli e al buio, spezzati dalle verità che li hanno feriti, i protagonisti tornano sul palco sorridenti e compatti, illuminati in modo uniforme. Come all’inizio, e come da copione, ridono, parlano, sparlano e scherzano. Nessuno ha giocato, “perché siamo frangibili”, dice Rocco (Paolo Calabresi): “qui dentro ci abbiamo messo tutto, forse troppo, ed è sbagliato giocarci”. Quella che abbiamo visto è stata solo una delle possibili versioni di una storia, una sliding door evitata, un gioco che ha fatto male solo per finta. Tutti ne sono usciti salvi, ci rassicura Genovese, compreso il pubblico che, a sipario calato, si è speso in un lungo applauso.

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