Per le modalità di organizzazione e per il volume del “giro” di droga in media Valle di cui erano accusati di essere parte, il pm Luca Ceccanti nella sua requisitoria non aveva esitato ad evocare “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese, chiedendo per cinque imputati ancora in giudizio (altri erano usciti di scena con riti alternativi) pene complessive superiori ai 34 anni di reclusione. Una immagine da cui il giudice monocratico Marco Tornatore, sentenziando colpevolezze e carcere per oltre 25 anni, non si è discostato troppo.
Nel dettaglio, nel processo conclusosi oggi, mercoledì 7 novembre, sono stati inflitti 9 anni di carcere e 29mila euro di multa a Lado Latifaj (40 anni), 8 anni e 30mila euro a Laurent Bushaj (29), 3 anni e 15mila euro a Laura Adina Marin (27), 3 anni e 14mila euro a Jani Bushaj (68), nonché 2 anni e 6 mesi e 1400 euro ad Hile Marashi. Un sesto imputato, il 51enne Raffaele Chiosso, ha patteggiato un anno, 4 mesi e 20 giorni (nel suo caso, la pena è sospesa). Per alcuni degli episodi originariamente contestati, il giudice ha pronunciato anche delle assoluzioni.
Tutti erano accusati di curare l’attività di spaccio, ed altri interessi, ordita da Albert Bushaj, 37enne albanese noto come “l’avvocato” (per il suo passato da iscritto al foro di Roma come legale straniero), condannato nel 2017 a tre anni e sei mesi di prolungamento di una sentenza di due anni prima. Le accuse erano emerse attraverso l’operazione “Campanacci” dei Carabinieri di Châtillon/Saint-Vincent, che aveva portato alla luce una “rete” in grado di movimentare stupefacente – prevalentemente cocaina – per un’enormità come 90mila euro al mese, vale a dire un milione di euro l’anno.
In base all’inchiesta, lo spaccio avveniva sia in modo tradizionale, sia attraverso il night “La dolce vita” di Châtillon. Del locale, nel quale erano stati documentati anche incontri di sesso a pagamento, si occupava, in particolare, Chiosso, ritenuto dagli inquirenti però “eterodiretto” dall’“avvocato”. Gli altri, tutti parenti ed affini di Albert Bushaj (salvo Marashi), erano accusati di essere coinvolti nell’attività di confezionamento (che avveniva a casa del 37enne, costretto a non uscire, perché si trovava ai “domiciliari”) e di spaccio.
Commentando le immagini girate di nascosto dai Carabinieri, che testimoniavano la preparazione delle dosi (nell’operazione era stato anche sequestrato mezzo chilo di “coca”, assieme ad un etto di marjiuana), il pm Ceccanti aveva preso a prestito un altro scampolo televisivo, affermando che “sembrava un laboratorio di Medellìn”. Per gli imputati, difesi dagli avvocati Viviane Bellot e Federica Gilliavod, le pene di oggi non sono però finzione.