Il processo Longarini? Per la Corte d’Appello è nato da affermazioni non vere di un investigatore

Depositate, negli scorsi giorni, le motivazioni della sentenza con cui i giudici di secondo grado hanno confermato l’assoluzione dell’ex capo della Procura di Aosta (e di due co-imputati) dalle accuse di induzione indebita, favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio.
Pasquale Longarini
Cronaca

Il processo all’ex procuratore capo di Aosta facente funzioni Pasquale Longarini è stato “originato da quanto è stato riferito, contrariamente al vero”, da un investigatore a un inquirente. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 5 novembre, la seconda Sezione della Corte d’Appello di Milano ha confermato l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” del magistrato, oggi in servizio quale giudice civile ad Imperia, dalle accuse di induzione indebita a dare o promettere utilità, favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio.

Analizzando l’appello della Procura meneghina al verdetto di primo grado (pronunciato il 9 aprile 2019 dal Gup Guido Salvini), in cui vengono ripetutamente censurate le argomentazioni difensive di Longarini (assistito dagli avvocati Claudio Soro e Anna Vittoria Chiusano), i giudici osservano che la decisione assolutoria “in alcun modo” è “stata assunta con riferimento a quelle dichiarazioni”, ma “neppure prendendo a base i rilievi degli operanti, la credibilità dei quali, come risulta da quanto motivatamente si è argomentato, è alquanto scarsa”.

Cuomo mai indagato

In effetti, nelle 45 pagine della sentenza, depositate negli scorsi giorni, le “bacchettate” dei giudici all’investigatore (un ufficiale dei Carabinieri) sono più d’una, a partire dall’esame delle circostanze che hanno confrontato Longarini alle accuse più infamanti per una toga: la rivelazione di segreto d’ufficio e il favoreggiamento. Secondo la Procura di Milano, quale pm di Aosta, il magistrato aveva aiutato Gerardo Cuomo (titolare del “Caseificio Valdostano” e co-imputato nel processo, anch’egli assolto) ad “eludere le investigazioni della Dda in materia di criminalità organizzata (poi sfociate nel processo “Geenna”, ndr.), rivelandogli,” di essere “sottoposto ad intercettazioni telefoniche”.

Un informazione che Longarini, stando all’imputazione, “aveva appreso dai Carabinieri di Aosta per ragioni del proprio ufficio, in quanto titolare di procedimenti collegati”. Appellando l’assoluzione in primo grado, la Procura di Milano sosteneva che “la circostanza per cui all’esito delle indagini torinesi non fossero emersi elementi significativi su Cuomo (difeso da Maria Rita Bagalà e Alessandro Argento, ndr.) era la prova del pieno successo del favoreggiamento di Longarini”. Per i giudici, però, tale assunto “non tiene conto che”, come accertato, “Cuomo non era mai stato iscritto nel registro degli indagati”.

Nel radar della Dda c’era Nirta

Sottoporlo ad intercettazione serviva, invece, “a comprendere le ragioni degli incontri e dei contatti che” Giuseppe Nirta (pluripregiudicato 52enne ucciso in Spagna nel giugno 2017) “aveva con lui”. In tal senso, la repentina interruzione dei contatti tra l’imprenditore e il suo contatto, deve trovare “interpretazione del tutto diversa” dall’affermare l’interferenza di Longarini, avendo invece “impedito di raccogliere elementi nei confronti dell’indagato, che era Nirta” (poi uscito dal “radar” degli inquirenti dopo il suo omicidio).

Eppure, sentito nell’ottobre 2016 dagli inquirenti milanesi, l’investigatore (al tempo in servizio in Valle) aveva dichiarato che Cuomo “era un personaggio strategico della nostra indagine, uno dei principali indagati”. Tuttavia, proprio l’ufficiale era stato “delegato” a sentire il grossista alimentare come “persona informata sui fatti”, una “qualità palesemente incompatibile con lo status” di indagato. Peraltro, in quella deposizione, Cuomo era stato preciso sui suoi rapporti con Nirta.

La partnership mai decollata

“Ho conosciuto Nirta Giuseppe presentatomi nel 2014 da Raso Antonio, titolare della pizzeria La Rotonda di Aosta” (poi arrestato e condannato quale presunto componente della “locale” di ‘ndrangheta di Aosta in “Geenna”, ndr.), aveva messo a verbale l’imprenditore, per poi aggiungere che il ristoratore “mi disse che” Nirta “aveva avuto problemi giudiziari e che aveva intenzione di instaurare rapporti commerciali per la fornitura di derrate alimentari dalla Spagna al fine di intraprendere un’attività lavorativa lecita e quindi iniziare un nuovo stile di vita”.

“In quel periodo – aggiunse Cuomo – ero interessato al commercio di olio di oliva e quindi la proposta mi poteva interessare”. Nirta, “incontrato per la prima volta nel mio magazzino accompagnato da Raso”, “telefonicamente mi presentò un tale Paul… il quale avrebbe dovuto seguire la fornitura di prodotti alimentari”. Quindi l’accordo per una fornitura-campionario “di 7000 euro che pagai con bonifico, con pagamento anticipato, ma ricevetti la metà del valore della merce concordata”.

Il titolare del “Caseificio”, per reclamare la merce non arrivatagli, sollecita anche Nirta, che “giustificava la mancata fornitura con varie scuse arrivando addirittura a proporre il rimborso di tasca sua”. Dichiarazioni che, annotano con puntiglio i magistrati della Corte d’Appello, l’ufficiale aveva “raccolto nove mesi prima di riferire che” Cuomo fosse “uno dei principali indagati nel procedimento torinese”.

La “confusione” sulle date

Quanto all’accusa di segreto d’ufficio nei confronti di Longarini, la sentenza sottolinea come lo stesso investigatore, “che in un primo momento aveva collocato la riunione (in cui Longarini aveva appreso delle indagini in cui il grossista era intercettato, ndr.) nei primi mesi del 2015”, aveva poi “precisato, dopo aver esaminato i propri memoriali di servizio, che la stessa era avvenuta a fine marzo”. I contatti telefonici tra Nirta e Cuomo terminarono il 29 marzo 2015 e la Procura di Aosta aveva iscritto il fascicolo sui reati collegati a quelli torinesi il 21 aprile dello stesso anno, ma l’ex pm aostano – come provato dalla sua difesa – era stato assente” dall’ufficio “dal 31 marzo al 7 aprile 2015”.

Pertanto, affinché “Longarini potesse rivelare a Cuomo quanto appreso dai Carabinieri, l’incontro doveva giocoforza essere avvenuto prima dell’assenza del pm dall’ufficio” e cioè “alla fine di marzo”, ma “tale collocazione risulta del tutto inconciliabile” con la dichiarazione ottenuta da un collega di Longarini sentito nell’ambito di indagini difensive, che ha ricondotto la data della riunione a “qualche giorno prima dell’iscrizione del fascicolo”, quindi alla fine di aprile. Pertanto, agli occhi della Corte, “non sono dunque fondati i rilievi dell’appellante” e “l’intera vicenda del riferimento del nominativo di Cuomo al pm Longarini non depone, una volta di più, per la credibilità del teste”.

Pressioni? No, una segnalazione…

Quanto, infine, all’induzione indebita a dare o promettere utilità di cui il procuratore capo aostano all’epoca dei fatti era accusato per aver esercitato pressioni sul contitolare dell’Hotel Royal & Golf di Courmayeur Sergio Barathier, mentre indagava su di lui per reati fiscali, affinché variasse il fornitore alimentare dell’albergo, facendo ottenere all’“amico” Cuomo una fornitura da 70mila-100mila euro annui, i giudici di secondo grado sposano la tesi del Gup Salvini.

La telefonata di Longarini ad un componente dello staff dell’albergo, fatta dal magistrato in presenza dell’ex manager Finaosta Gabriele Accornero, va quindi ritenuta “al di sotto della soglia dell’abuso, ‘sostanziandosi in una segnalazione, in una indicazione e cioè che il contatto con Cuomo meritasse un esito positivo in quanto questi era un imprenditore affidabile e con prodotti di qualità”. Peraltro, dalle indagini era emerso come l’hotel fosse già deciso a variare un suo fornitore storico, a causa di alcune difficoltà con esso.

Nessuna “rassicurazione” da Longarini

Oltretutto, quanto alla presunta indebita utilità per Barathier (processato assieme a Longarini e Cuomo e, anch’egli, assolto, affiancato dagli avvocati Jacques Fosson e Fulvio Simoni), rappresentata da un presunto “occhio di riguardo” dell’allora pm nei procedimenti a suo carico, l’inchiesta ha appurato come nell’unico incontro tra il magistrato e il contitolare dell’albergo, il primo – lo hanno sottolineato sia il legale dell’indagato (presente in quell’occasione), sia l’ufficiale della Guardia di finanza che conduceva le investigazioni – “si era limitato ad assicurare” che “le indagini sarebbero state chiuse il prima possibile”.

Un incontro “assai breve e non si era parlato del merito delle accuse”. “Non risponde dunque al vero, ancora una volta, – si legge in sentenza – quanto riferito” dal graduato dell’Arma nella deposizione al pm di Milano in cui “aveva dichiarato di aver saputo che Barathier aveva avuto un colloquio privato con Longarini”, dopo una accesa discussione del pm con il legale del’albergatore, “’in esito al quale i rapporti erano divenuti più tesi”.

I fascicoli senza irregolarità

Anche del vantaggio indebito “manca dunque la prova” e il sostituto procuratore generale di Torino Giancarlo Avenati Bassi “all’esito di una ispezione di tutte le indagini di Longarini non aveva rilevato alcuna irregolarità” in quelle su Barathier, il che “toglie ogni rilevanza ai fatti diversi da quelli di cui alla imputazione, sui quali il pm ha molto insistito nell’atto di impugnazione”. Parole che, per quanto il giudizio possa vedere ancora il grado di Cassazione (ma la Corte d’Appello esaurisce l’esame del merito dei fatti), Pasquale Longarini non potrà che essere soddisfatto di leggere, anche se arrivano dopo l’arresto (che “decapitò” gli uffici di via Ollietti), la sanzione disciplinare e anni di udienze.

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