Genova, la Francia, le canzoni: le verità affascinanti di Gino Paoli

L’84enne cantautore arriva ad Aosta, accompagnato al piano dal pianista Danilo Rea, ed incalzato nel talk show da Enrico De Angelis, e ricorda come “la libertà è conoscere, sennò è una libertà fasulla”.
Gino Paoli allo Splendor.
Cultura

Quando hai messo in fila 84 primavere ti puoi permettere vari lussi, compreso quello di dire (sempre) la verità. Se ti chiami Gino Paoli, oltretutto, hai due modi per farlo: cantando e raccontando. Se n’è accorto chi ieri, martedì 26 febbraio, era allo Splendor per la serata della “Saison Culturelle” – tra il talk show e il concerto, ma sarebbe meglio dire “récital”, visto che la canzone francese era protagonista – in cui il cantautore per eccellenza ha affascinato, rinverdendo anzitutto che “la libertà è poter scegliere. La libertà è conoscere. Sennò è una libertà fasulla”.

Da lì, preso per mano da Enrico De Angelis, direttore artistico del “Club Tenco”, Paoli si è addentrato in quel mondo di musica e vocaboli nato dopo “la guerra che ha fatto perdere il senso del tempo a una generazione”, che in Italia ha una culla geograficamente ben definita. “Io, Luigi (Tenco), Bruno (Lauzi) e Fabrizio (De André) abbiamo capito che con la canzone potevi esprimere quello che sentivi. – ha sussurrato nel microfono – Quella è la lezione vera che abbiamo beccato”. Attenzione però, perché “se non ci fossimo stati noi, l’avrebbe beccata qualcun altro”.

Grazie a quella “rivelazione”, “siamo diventati la Scuola genovese, ma non era vero niente. Solo Fabrizio era genovese”. La cosa bella, tra l’altro, “è che eravamo amici già prima. Ci siamo trovati in questo ambiente e ci siamo sostenuti a vicenda”. Artisticamente, tuttavia, “non c’è stata la dipendenza dalla canzone francese”. Paoli, però, è stato uno dei primi a cantare Charles Aznavour in italiano (“era un uomo strambo, aveva gli occhi di uno che vede tutto, che riesce a notare tutto”) e l’interpretazione di “L’amour c’est comme un jour” (1972) ha messo in luce altre verità.

Su tutte, che il jazz – colonna sonora della Liberazione, sbarcato in Europa assieme ai soldati americani – ha attinto per primi (nella traiettoria verso sud, dalle spiagge del D-Day) gli chansonniers d’oltralpe, contaminando in modo irreversibile il dna di una tradizione musicale (per informazioni, citofonare a Sidney Bechet). In questo senso, l’accompagnamento del pianista vicentino Danilo Rea ha fornito binari tra i più immaginifici all’evento, provvedendo un tappeto musicale virtuoso, ma mai sopra le righe rispetto al timbro oggi inconfondibile di Paoli.

Dovendo esprimere una preferenza nell’universo francese, il “genovese di Monfalcone” ha confidato di avere “la mania di Charles Trenet”, perché “ha scritto quelle quindici canzoni che hanno fatto il giro del mondo”. Dopodiché, ha lasciato cadere una leggerissima “La Mer”, dalla quali tutti hanno capito perché le onde (che siano quelle friulane, o liguri, in fondo non importa) hanno “bercé mon coeur pour la vie”. In un’esibizione “stripped”, anche se il termine non piacerebbe a Paoli, quando tutto funziona il risultato si chiama emozione.

Ed una verità granitica, alla ripresa del talk-show, è arrivata anche sul potere evocativo dell’incontro tra le sette note e le ventisei lettere: “l’emozione non è traducibile. Scrivere significa tradurre con un mezzo concreto un fatto astratto. È comunque un tradimento”. Detto da un cantautore ha un potere seduttivo non indifferente e un altrettanto fascinoso “assaggio” del concetto era giunto, in apertura di serata, dalla struggente interpretazione di “J’ai deux amours” (“Mon Pays et Paris…”, successo che lanciò Josephine Baker), della delicata cantante capoverdiana Karin Mensah.

E volendoli vedere così, prima che il sipario calasse (ma non poteva essere altrimenti), spazio ad alcuni dei tradimenti più celebri della carriera di Paoli, prossima al traguardo dei sessant’anni. Da “Sapore di sale” a “La Gatta”, passando per “Senza fine”. Versioni irriconoscibili rispetto all’“ultima volta” del cantautore alla “Saison” (negli anni novanta, in un “Giacosa” dalle poltrone allora ancora legnosissime), ma tutto ieri sera ha fatto capire che il nostro è oggi un pittore dinanzi ad una tela già dipinta, su cui appone le sue zampate di bianco. Anche questo è un lusso non per tutti. Anche questo, squarciare gli strati di ciò che già esiste, è aiutare una verità ad emergere.

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